Dio è entrato nella mia vita piano, senza far rumore, in modo graduale, come l’aurora. Lui è entrato in modalità “silenzioso” ma con la vibrazione. Sì, con la vibrazione, perché l’ho incontrato attraverso persone, situazioni, eventi che mi hanno lasciato il segno, che mi hanno messo in moto dentro, che mi hanno fatto nascere domande grandi, che mi hanno acceso desideri grandi.

In quarta elementare a catechismo ho ascoltato la testimonianza di una suora missionaria; non mi ricordo niente di quello che ha detto, so solo che si è mosso qualcosa dentro e ho iniziato a farmi domande come “Ma chi glielo ha fatto fare di lasciare tutto e partire? Da dove le viene tutta questa forza?”. Domande alle quali non sapevo rispondermi. Sono rimasta attratta da quell’esempio di vita e il desiderio della missione ha iniziato a scaldarmi il cuore; mi entusiasmava l’idea di costruire qualcosa per chi non aveva niente, in un villaggio disperso dell’Africa.
Durante gli anni delle medie, i temi dello sfruttamento minorile e della fame nel mondo mi hanno accesa, ma presto ho capito che nel mondo regnava l’indifferenza e l’insensibilità di fronte a queste tematiche. Così è cresciuto sempre di più il rifiuto nei confronti di questa società consumistica, egoista e individualista.

A 14 anni in parrocchia arrivò un nuovo parroco, un tipo giovane, spiritoso, così diverso dalla figura del sacerdote a cui ero abituata io. Mi stava simpatico quel prete e dal quel momento ho iniziato ad ascoltare l’omelia. Lui ripeteva spesso: “La fede è come una piccola fiammella, fragile, che fa poca luce. Ma beato chi ce l’ha e la alimenta!”. Poco dopo ho conosciuto una suora saveriana, missionaria in Brasile da oltre 50 anni. È stata la luce nei suoi occhi a farmi suscitare ancora quel desiderio che avevo dentro, messo a tacere per lungo tempo: la missione, il donarsi agli altri, lo spendersi per gli altri. Avevo capito che l’unica cosa che faceva muovere e brillare quella missionaria era il fuoco della fede. Io non avevo per niente quella fiammella accesa nel mio cuore, ma ho iniziato a essere sempre più convinta che potevo mettermi alla ricerca di Dio. Con il cuore pieno di rabbia, ho lanciato una sfida a Dio e gli ho detto: “Io provo a cercarti, se esisti salta fuori!”. È così che è iniziata la mia ricerca di Dio. Ho iniziato a pregare, a gridare a Dio, a chiedergli il dono della fede, di sapermi fidare di Lui. Mi sono avvicinata alla Parola e piano piano sentivo che quella Parola era viva e mi rendeva viva, si incarnava perfettamente nelle mie giornate, parlava alla mia vita, mi riguardava. Dietro quella Parola doveva esserci Qualcuno. Quello che all’inizio sembrava un monologo con Dio, si è trasformato sempre più in un dialogo, un rapporto intimo con Lui. Si sono alternati periodi di smarrimento e di rifiuto di Dio, a periodi di profonda intimità. Sapevo che Lui era al mio fianco e che insieme avremo fatto cose grandi. Nel cuore custodivo questa Parola: “Voi siete il sale della terra, voi siete la luce del mondo” (Mt 5, 13-14). Ero certa che Dio aveva un progetto bello su di me, avevo il desiderio di fare la Sua volontà e di fare qualsiasi cosa mi avesse chiesto con Amore.

A 17 anni la botta: un mio amico, animatore con me in parrocchia, si suicidò e da quel momento è iniziato un periodo buio, di deserto interiore, durato quasi quattro anni. In un primo momento ho provato rabbia per l’impotenza di Dio di fronte a quel gesto, poi ho capito che Dio quel giorno ha pianto, tanto. Perché uno dei suoi figli non l’ha riconosciuto come Padre. È esplosa dentro l’urgenza di annunciare Dio ai miei coetanei, di dare un senso pieno alla mia vita, di fare un “lavoro” da grande che portasse l’altro all’incontro con Lui. Sentivo Dio che gridava forte “Io ti ho pensato e creato per la vita! Scegli la vita! Scegli la vita e porta via a chi è morto dentro!”

Ho iniziato l’università, ho continuato a seguire i gruppi in parrocchia, ma la domanda “Dio, qual è il tuo progetto su di me?” continuava ad abitare il mio cuore e stava iniziando a pesarmi sempre di più. Più andavo avanti, più avevo la sensazione di non essere sulla strada che Dio aveva preparato per me. Ero convinta che la vocazione corrispondesse al lavoro fatto su misura per me, quello in cui potevo aiutare concretamente il prossimo. Ero alla continua ricerca del lavoro ideale per me, dove potevo aiutare gli altri al meglio. Più cercavo la passione della mia vita, più trovavo in quel Dio l’unico motore delle mie giornate.

Dio voleva altro da me, ma io non riuscivo a capire cosa. Nel 2102, stanca dei valori futili su cui stavo costruendo la mia vita, stanca della logica di questo mondo, stanca di non essere compresa dalla mia famiglia, si è riacceso forte il fuoco della missione. Dio gridava forte, mi diceva “I miei progetti escono dalla logica umana! Fidati di me!”. E così con l’entusiasmo alle stelle sono atterrata in Brasile, sicura che Dio si sarebbe preso cura di me. Quella in Brasile fu per me una grande lezione di vita: mi sono resa conto di non poter salvare il mondo, ma soprattutto ho capito che stavo scappando da una realtà, la mia vita, continuamente tesa a trovare un significato di pienezza. Tornata dal Brasile ho continuato la vita di prima, stessa facoltà all’università e stessi gruppi in parrocchia, aggiungendo altre nuove attività di volontariato tra Caritas e clownterapia in ospedale. Mi spendevo per l’altro, vedevo Dio nell’altro e mi sentivo su di giri. Tutto questo spendermi mi sembrava la soluzione al mio mal di vivere, ma con il tempo ho capito che neanche quella era la soluzione, perché non stavo rispondendo alle domande grandi che riguardavano la mia vita nella sua totalità, che mi portavo dentro da tanto tempo e che di giorno in giorno si ingigantivano sempre di più, diventando un macigno sempre più pesante da portare sulle spalle: “Ma chi me lo fa fare di rimanere su questa terra? Per cosa vale veramente la pena vivere? Per chi vale veramente la pena vivere?”.   Sentivo Dio presente in tutto quello che facevo e mi stava stretto poter parlare liberamente di Lui solo un’ora a settimana in parrocchia. Lui era come un fiume in piena, voleva inondare ogni istante della mia vita, ma io non potevo lasciarlo straripare troppo, altrimenti avrei perso la stima di tanti amici e il controllo sulla mia vita.

Nel 2013 la svolta: mi ritrovai tra le mani un volantino che avevo preso in una chiesa ad Assisi l’anno prima. Sul volantino c’era scritto: Servizio Orientamento Giovani e il mio occhio è subito stato catturato da quel Corso vocazionale. Non avevo idea di cosa fosse, ma in quell’esatto istante ho pensato “mio, questo è mio”. Sono arrivata al vocazionale spinta dall’idea “sentiamo un po’ cosa dicono i frati”, senza attese, solo  con la paura di tornare a casa ancora più scossa di come c’ero arrivata.

Dal vocazionale in poi si sono spalancati nuovi orizzonti: grazie all’accompagnamento spirituale e al cammino di discernimento sono crollati i miei castelli mentali sulla mia idea di vocazione: vocazione non è il lavoro che amo fare, ma la prima vocazione è innanzitutto quella all’Amore. Ho conosciuto un Dio che non potevo più considerare semplicemente il mio migliore amico. Ho trovato un Dio Padre che mi ha presa per mano e con una delicatezza infinita, mi ha condotta a guardarmi dentro, a fare ordine nella mia vita, a dare il nome di deserto a quei quattro anni di oscurità. È in quel deserto che Dio mi ha essenzializzato, mi è rimasto accanto, mi ha fatto vedere in Lui l’unico senso della mia vita, l’unico per cui vale veramente la pena vivere. Ho ripreso in mano la mia vita, l’ho guardata con i Suoi occhi e oggi la benedico, tutta, e benedico soprattutto quei periodi di forte lotta interiore e le ferite più profonde. Ho trovato un Dio che mi chiede solo di amarlo, di stare davanti a Lui, di lasciarmi guardare da Lui e lasciarmi riempire del Suo Amore. È Lui che da sempre ha messo nel mio cuore desideri che puntano all’eternità! Scavando i miei desideri e scalando i Suoi desideri, ho respirato una libertà infinita quando ho scoperto che i miei desideri coincidono con i Suoi!  È Lui la pienezza che ho sempre cercato, è Lui la fonte della Gioia, quella piena: “Guardate a Lui e sarete raggianti” (Sal 34,6).

                                                               Chiara

 

Testimonianza di alcuni giovani durante il corso Maddalena.

L’abbandono

Sono nata il 25 marzo 1984, festa dell’Annunciazione, del di Maria; sono stata abbandonata dalla mia madre naturale, Gabriella, che avendo grandi difficoltà non poteva tenermi ma ha comunque detto il suo “sì” scegliendo di darmi la vita nonostante i medici le consigliassero di abortire…così sono stata adottata.

La separazione dei miei genitori adottivi

I miei genitori adottivi mi hanno sempre detto la verità fin da piccola e mi hanno dato tanto, sostenendomi negli studi, nei miei sogni e nei miei progetti. Da bambina cominciarono a portarmi in parrocchia perché facessi parte di un ambiente di amicizie sano in cui crescere e così ho frequentato il catechismo e i sacramenti.
Dentro di me ho sempre sentito che mi mancava un pezzo, che non mi tornavano i conti; sapevo di essere stata adottata e la cosa non mi dispiaceva, non mi dava in apparenza nessun problema, ma dentro avevo un desiderio fortissimo di sapere chi era mia madre, perché mi aveva abbandonato e quali erano le mie origini. Ai bambini infatti non viene detto nulla dei genitori naturali, così come ai genitori naturali non viene detto nulla riguardo ai propri figli abbandonati. Sapevo solo di essere nata a Bologna. Negli anni mi sono informata sulle procedure per conoscere le mie origini e dopo aver compiuto 18 anni, andai al tribunale dei minori di Bologna e chiesi informazioni sulla mia storia: mi dissero che sarei dovuta passare all’età di 25 anni, perché per queste pratiche la maggiore età non bastava.
Delusa e arrabbiata tornai a casa. Il clima familiare stava diventando sempre più turbolento e i litigi sempre più frequenti e così, quando avevo 21 anni, i miei genitori adottivi si separarono.

La convivenza – Il matrimonio – Il distacco dalla fede

Io mi sentivo tirata da una parte e dall’altra e costretta a scegliere con chi stare. Tra i due “litiganti”, scelsi di andare a vivere con il mio fidanzato, un ragazzo molto più grande di me, con cui mi illusi di aver trovato un rifugio sicuro e tutto l’affetto che mi era mancato. All’inizio tutto sembrava andare bene. Condividevamo la stessa passione per la musica: eravamo sempre in giro tra concerti, prove e lezioni. Per la voglia di formare la famiglia che non avevo mai avuto, dopo aver insistito e dopo aver finalmente convinto il mio fidanzato, nel 2008 ci siamo sposati in Chiesa. Lui non è credente, ma mi ha assecondata, sposandomi per farmi un favore e per accontentarmi.
Durante la convivenza e durante il matrimonio il mio rapporto con la fede si è sgretolato pian piano. Io e mio marito frequentavamo solo sale da concerto, teatri, rassegne musicali e amicizie lontane dalla fede. In più il rapporto che avevo con la mia parrocchia era più che altro legato alle amicizie, ma interiormente non capivo fino il fondo il motivo della preghiera e della frequenza alla Messa e ai Sacramenti: cercavo più che altro di assolvere a dei doveri che mi sembravano anche buoni, ma privi di senso. Piano piano mi sono allontanata dalle amicizie della parrocchia e dalla frequenza ai Sacramenti: andavo di rado alla Messa (solo nelle occasioni importanti), non pregavo mai, non mi confessavo mai…e dentro di me crescevano sempre più l’angoscia, l’inquietudine, la rabbia e la disperazione, che mi portavano ad avere comportamenti non corretti con le persone che mi circondavano e che mi volevano bene.

2009 – Venticinque

In questo anno arrivò per me un’importante soddisfazione professionale: con il brano autobiografico “Venticinque” ho partecipato alle selezioni per il Festival di Sanremo posizionandomi fra i primi 10 finalisti su 421 iscritti; la canzone non andò in gara al Festival, ma venne comunque scelta per essere inserita in una compilation uscita in tutta Italia.
Il titolo rappresenta due tappe fondamentali della mia vita: 25 è il giorno della mia nascita e 25 è anche l’età in cui la legge consentiva di conoscere l’identità di mia madre naturale.
Il brano parla del mio desiderio di conoscere le mie origini, da dove e vengo e di chi sono, a chi appartengo. Tutti questi interrogativi sono racchiusi in alcune forti frasi del brano: “io non so chi sono, non so cosa cerco, che cosa ho perso”; “prepotente istinto, cordone ombelicale, mi è rimasto addosso e non si può staccare”.

2010 – La scoperta dell’identità di mia madre naturale – La fine del mio matrimonio

Nel 2010 ricevetti quindi l’autorizzazione dal tribunale dei minori di Bologna per poter accedere al fascicolo riguardante le mie origini, in particolare riguardante la storia di mia madre naturale.
Scoprii così la sua storia: anche lei era stata abbandonata, non aveva mai avuto una famiglia, nemmeno adottiva, aveva vissuto tra istituti medici e psichiatrici, tra tentativi di fuga e suicidio. Scoprii anche che era morta solo 4 anni prima e che per un pelo non avevo avuto l’occasione di conoscerla. Si chiamava Gabriella. Lessi l’incontro che ebbe con mio padre, che non conosco, la sua gioia nel sapere di essere rimasta incinta di me e il suo desiderio di formare una famiglia. Mio padre, da quel che emerge dai documenti, alla notizia ebbe reazioni violente e abbandonò mia madre. I medici a quel punto le consigliarono di abortire perché per portare avanti la gravidanza, Gabriella avrebbe dovuto interrompere le cure che la facevano stare meglio. Ma Gabriella non cedette e decise di portare avanti la gravidanza; era però consapevole di non potermi accudire e con sofferenza decise di lasciarmi in adozione con queste parole: “Non voglio che la bambina che ho partorito il 25/03/1984 abbia a soffrire come ho sofferto io. Poiché non sono in condizione di assisterla ritengo che sia bene, nel suo interesse, dichiararla in stato di adottabilità. Non ho parenti che possano occuparsi di lei”.
Attraverso i numeri di telefono di assistenti sociali, ospedali e altre strutture, mi misi in contatto con Manuela, un’operatrice di uno dei centri in cui mia madre Gabriella viveva; ci incontrammo e Manuela mi raccontò che lei e mia madre erano legatissime e che Gabriella aveva avuto semplicemente una grande mancanza di amore e che il suo autolesionismo era solo un grande grido di aiuto e di amore.
Parallelamente in questo periodo il mio matrimonio si stava rivelando un disastro e verso la fine dell’anno mi sono separata.

2011 – Come un prodigio

Decisi di andare a vivere da sola, in affitto. Erano i primi mesi del 2011 e diverse mie amiche o annunciavano il loro matrimonio o annunciavano l’arrivo di un bimbo; era un continuo ricevere partecipazioni alle nozze ed organizzare addii al nubilato. Io stavo malissimo: era il periodo più brutto e fallimentare della mia vita e dovevo in un qualche modo trovare le forze per gioire con loro.
Un giorno, Agnese, una delle mie più care amiche, mi disse che si sarebbe sposata in settembre e mi chiese di musicare il salmo 139. Lo lessi diverse volte per adattare il testo e comporre la musica. Le parole parlavano al mio cuore: “Sei tu che mi hai creato e mi hai tessuto nel seno di mia madre”…Nacque così “Come un Prodigio”.
Fino a quel momento mi ero sempre sentita un errore. Spesso ero depressa, mi disperavo e passavo le giornate a piangere. Scoprii finalmente che Dio è un Padre buono, assaporai il suo Amore e sentii che dentro di me si stava affievolendo la sofferenza di una vita costellata da tante amarezze: la mancanza di mia mamma, la separazione dei miei genitori, il fallimento del rapporto con mio marito.
Dio mi incontrò nelle parole di quel Salmo e mi aiutò a prendere coscienza del fatto che io non sono uno sbaglio, ma sono sua figlia, sono amata e appartengo a Lui. Finalmente non ero più orfana ma figlia di Dio.

Cominciai a frequentare di nuovo la parrocchia ma ancora con l’atteggiamento prudente di chi non si è ancora abbandonato del tutto. Durante il passare dei mesi nacque in me l’esigenza di cercare la verità relativamente al mio matrimonio concluso e avviai la pratica di nullità ecclesiastica. Avevo valutato i miei errori, i presupposti e il vero motivo che mi aveva portato a quel passo.

2013 – La svolta: la riscoperta della fede

Nell’estate 2013 trascorsi le vacanze in Puglia e decisi, più per la curiosità di vedere un “personaggio famoso” che per vera devozione, di andare a far visita a Padre Pio. Ci tenevo molto a vedere il suo corpo esposto, ma non arrivai in tempo. La cappella era già chiusa. Rimasi delusa ma non mi diedi per vinta: rientrata a casa sentii la voglia di approfondire la vita del Santo. Così vidi il film della sua vita, lessi la biografia, i suoi scritti e i siti che parlavano di lui. Rimasi molto colpita dai messaggi che Padre Pio inviava alle persone attraverso l’angelo custode. Quegli aneddoti mi invogliarono a pregare l’angelo custode che fino allora non avevo mai considerato. In più, attraverso la devozione di Padre Pio a Maria, presi consapevolezza che la Madonna è la Madre di tutti e che Dio mi aveva affidato una madre (e per me l’argomento“madre” era ovviamente un tasto delicato, considerata la mia storia). Iniziai a pregare anche lei, ad affidarle le piccole e grandi scelte della vita. Pian piano sentivo che Maria mi era accanto e che non dovevo avere più paura di nulla perché percepivo la sua presenza vera, viva e protettiva accanto a me. Da lì il passo ulteriore è stato quello di conoscere meglio Gesù e innamorarmi di lui!
Dal punto di vista pratico tornai a confessarmi per la prima volta dopo anni, partecipai alla Messa con commozione, cominciai a pregare, a leggere il Vangelo, a conoscere la vita di alcuni santi, a fidarmi di Dio e vivere nel e del suo amore per me. Si stava finalmente concretizzando questo legame affettivo e filiale con Dio che mi era stato anticipato dalla canzone “Come un Prodigio”.

2014 – Medjugorje – Assisi, Corso Vocazionale – Kilis – Medjugorje

Piena di impegni tra scuola, concerti e lezioni di chitarra nella mia parrocchia, in un pomeriggio dell’anno scorso un parrocchiano mi consegnò un pacco giallo da parte dell’imprenditore Romano Magnani, che io non conoscevo. Stupita lo aprii, dentro c’erano dei cd, un dvd dell’incontro di Sestola della veggente di Medjugorje Vicka e un calendario su cui è rappresentato il volto della Madonna di Medjugorje. Notai che il 25 Marzo era contornato da un cuore rosso. È il giorno dell’Annunciazione, il giorno della mia nascita e il giorno della morte del figlio di quell’imprenditore. Colsi in quel segno un invito ad andare a Medjugorje e prenotai il mio posto sul pullman per il pellegrinaggio a maggio.
Poco prima di partire per Medjugorje, sfogliando la Bibbia, mi capitò fra le mani il santino del mio battesimo: rimasi senza parole nel vedere che erano citati proprio i versetti del Salmo 139 che avevo scelto per il ritornello di “Come un Prodigio”. In più, poco sotto, c’era la scritta “O Maria, ti offriamo Debora”.
Avevo finalmente trovato la mia vera e definitiva famiglia, Dio e Maria! E dopo una vita passata a pensare di non valere nulla e di non meritarmi l’affetto di nessuno, Maria mi era venuta a ricordare che agli occhi di Dio io sono un prodigio! E in più mi stava chiamando a Medjugorje!
Così andai a Medjugorje per la prima volta ed ebbi la grande felicità di cantare “Come un Prodigio” durante la Messa, dopo l’apparizione del 2 Giugno, davanti a migliaia di persone.
A luglio decisi di frequentare il Corso Vocazionale ad Assisi, per dare una svolta alla mia fede, per temprarla, fortificarla e conoscerla sempre di più. Avevo sete e desiderio di Dio in un modo incredibile. Volevo abbandonarmi con tutta me stessa a Lui e al suo Amore. La prima cosa che notai fu che la suora incaricata ad animare i canti e i momenti musicali si chiamava Gabriella, come mia madre naturale! La bontà e la determinazione dei frati e la profondità delle catechesi, fecero breccia nel mio cuore e spalancarono in me il desiderio e la convinzione di voler fare della mia vita un capolavoro, di affidarmi completamente alla volontà di Dio e credere che niente è impossibile a Lui. Scoprii che tutte le mie delusioni erano il risultato delle mie precedenti illusioni e che Dio mi stava chiamando a confidare solo in Lui, a lasciarlo lavorare. Mi stava invitando a fargli spazio, a scommettere e puntare tutto su di Lui, perché Lui ha in mente grandi progetti per noi ed è l’unico che può venire a trasformare la morte in vita, i fallimenti in occasioni per ripartire, perché a Lui non interessano tutti i tuoi errori: a Lui interessi tu, così, come sei.

Ad Agosto decisi di seguire i consigli dei frati ad Assisi, i quali ci avevano insegnato che se vuoi far spazio a Dio nella tua vita devi essere pronto a parlare la sua lingua, ad agire come Lui: devi essere pronto a fare un gesto di amore gratuito. I frati ci proponevano spesso, come gesto di amore gratuito, l’esperienza della missione: perché Dio sta nei poveri, negli umili, negli ultimi e mettendoti a servizio degli altri, il tuo cuore imita quello di Dio, che può finalmente irrompere nella tua vita. L’accesso al cuore di Dio dipende dalla qualità della nostra fiducia e speranza in Lui e dalla nostra capacità di amare gli altri.
Volevo davvero incontrare il volto di Cristo e dopo aver contattato un’associazione che si occupa di portare aiuti ai profughi siriani, partì in missione per Kilis, una città turca al confine con la Siria. La missione, dato il momento e la situazione pericolosi del periodo, durò solo 4 giorni ma fu occasione per me di mettermi davvero al servizio di chi ha perso la casa, la terra, la speranza, la forza. Il nostro compito era quello di preparare i pacchi di alimenti e distribuirli alle famiglie siriane che vivevano rifugiate in Turchia, baracca per baracca.
Le condizioni delle famiglie erano pessime: sporcizia, povertà, case bruciate, baracche sperdute. Le famiglie erano numerose ma i volti erano sereni e i bambini sorridenti. Io volevo solo vedere Dio, toccarlo, servirlo, aiutarlo, sapendo che chi fa qualcosa al più piccolo lo fa a Dio stesso. In quei quattro giorni si sono susseguiti momenti intensi di riflessione spirituale, dovuta al constatare la situazione precaria di povertà delle persone e momenti di gioco con i bambini, che non vedevano l’ora di divertirsi: noleggiai quindi una chitarra e cantai ai bimbi “Come un Prodigio”. Dedicai questa missione al Signore con l’intenzione di chiedergli di venire nella mia vita e rivoltarla e trasformarla come più a Lui sarebbe piaciuto, rendendomi disponibile ad ascoltarlo e ad accettare la sua volontà, affinché potesse realizzare il Suo sogno su di me, cioè realizzare la mia felicità, il capolavoro della mia vita.

Frutti di “Come un prodigio”

“Come un Prodigio” è stata una bomba che è esplosa e che sta contagiando con il suo messaggio sempre più persone. Le visualizzazioni su youtube aumentano ogni giorno di più, le persone la condividono su facebook, i genitori la insegnano ai figli, i miei alunni di scuola la fanno sentire in casa, alcune persone la utilizzano come suoneria del cellulare. La canzone viene cantata per matrimoni e battesimi, in alcune parrocchie hanno fatto le magliette per i bambini dei campeggi, alcuni studi fotografici la usano come colonna sonora per book di foto di bambini, ad Assisi è stata usata come brano del Capodanno 2015 ed è tuttora usata come brano da cantare durante i corsi.
In più mi stanno chiamando a fare testimonianze in tutta Italia, chiedendomi di portare la mia vita e la mia musica soprattutto ai giovani; le persone mi scrivono in continuazione dicendomi che questa canzone li fa avvicinare a Dio, li fa commuovere, riflettere…si sentono amate dal Signore e ci tengono con tutto il cuore a farmi sapere come questo brano sia stato utile per il loro cammino di conversione. Ultimamente mi hanno contattato donne incinta, che hanno mariti che vorrebbero farle abortire e disperate cercano un conforto e mi dicono che attraverso “Come un prodigio” trovano la forza di portare avanti la gravidanza; mi scrivono persone separate, persone che vogliono avvicinarsi a Dio e non sapendo come fare mi chiedono un consiglio. Ogni tanto passo le serate e i pomeriggi a prendere caffè o a cena con alcune di queste persone per poter dare nel mio piccolo il mio contributo e una parola di incoraggiamento.
E per finire mi hanno proposto di incidere un disco, di fare un videoclip, di scrivere un libro…
Insomma, è scoppiata una vera e propria bomba d’Amore che spero continui a dare sempre più frutti a più persone possibili!
È questa è la bellezza del vero abbandono, l’abbandono in Dio!

Debora Vezzani

Ero confuso ed è arrivato l’Amore, ero stanco ed è arrivato l’Amore, ero assetato ed è arrivato l’Amore. Cercavo un dove, cercavo una strada e sono stato preso per mano dall’Amore.

Il corso vocazionale è stato lasciarmi indicare chi è davvero Dio. Al corso vocazionale le mie idee, le mie formalità, le mie paure hanno ceduto, la mia sete è stata saziata, come dice Gesù alla Samaritana: “…chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna” (Gv4, 13-14).
Dal corso vocazionale tutto è cambiato; la forma, l’apparenza, ciò che gli altri pensano, non è più determinante; quello che conta per me è l’Amore. L’Amore si è riacceso e ha dato vita a tutto, nella quotidianità, nelle difficoltà, nella sofferenza, nel servizio, passo dopo passo e sbaglio dopo sbaglio; il mio cuore è ricolmo di amore, batte per la vita.
Dal corso vocazionale le mie giornate sono sempre le stesse, ma il centro è tornato al suo posto; ogni azione, ogni relazione, ha acquistato il suo valore più profondo, perché mi sono riscoperto figlio amato, atteso, pensato, di un Padre che ama follemente; che sempre mi chiama e sempre mi aspetta, che soffre ogni volta che mi allontano da lui, ma sempre è pronto ad accogliermi e ripartire da capo. Non un padre fiscale, non un padre che vuole chissà cosa da me, ma un Padre che mi ama così come sono! E mi chiede solo di essere riconosciuto come Padre, Colui che mi ha dato la vita! Soffre, perché io senza Lui non ho vita, mi perdo in piccolezze, in banalità, mi accontento e non vivo; Lui è la vita, la pienezza, il respiro; è in Lui che tutto prende senso, è in Lui soltanto che io posso vivere!
Allora mi sono risuonate le parole di San Francesco: “Non più figlio di Pietro Di Bernardone ma Padre nostro che sei nei cieli!”, che libertà che gioia nel dire queste parole! Sono finalmente io.
Questo nella mia vita di tutti i giorni si è riversato e si riversa in ogni ambito. Prima vivevo il fidanzamento in secondo piano rispetto al servizio ai poveri, invece adesso lo vivo e voglio viverlo appieno, perché lì passerà la mia risposta a questo Amore. Nell’ultimo periodo il servizio che svolgo all’interno di una struttura della Comunità Papa Giovanni XXIII, era vuoto e molto stancante, mentre ora nasce tutto da un Amore più grande di Dio per me, che mi nutre e che spero di trasmettere servendo; anche la fraternità e l’amicizia si sono rinnovate, vivendole con meno possesso e più verità.
Insomma esteriormente magari è cambiato poco, i numeri e gli impegni sono più o meno gli stessi, ma dentro è cambiato tutto, tutto ha preso vita. Credo che ogni giovane dovrebbe avere la possibilità di vivere il corso vocazionale, ogni giovane dovrebbe darsi questa opportunità; spero di essere sempre più strumento e tramite perché tutti possano abbracciare questo Amore sconfinato.

Tobia

«Sappiamo che ogni sforzo per migliorare una società, soprattutto quando è piena d’ingiustizia e di peccato, è uno sforzo che Dio benedice, che Dio vuole, che Dio esige». Così, il 24 marzo 1980, monsignor Óscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, concludeva l’omelia durante la messa vespertina. Pochi minuti dopo, al momento dell’elevazione del calice, un sicario, entrato in quel momento nella piccola cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza, lo uccideva, sparandogli.

Arnulfo Romero era nato a Ciudad Barrios il 15 agosto 1917. Entrato in seminario dodicenne, dopo alcuni anni giunse a Roma per continuare gli studi. Ordinato qui sacerdote nel 1942 e tornato in patria, divenne prima parroco di Anamorós, poi fu trasferito a San Miguel, dove resterà fino alla nomina di vescovo ausiliare di San Salvador. Nel 1974 divenne vescovo di Santiago de María, una delle diocesi più povere del Paese sudamericano, e fu l’occasione per conoscere da vicino le povertà del popolo salvadoregno e le ingiustizie da questo subite. La nomina ad arcivescovo di San Salvador avvenne nel 1977, in un momento in cui nel Paese la repressione sociale e politica era durissima.

Inizialmente la nomina di monsignor Romero non infastidì il potere: si presentava più come un uomo di cultura non impegnato socialmente, un vescovo orientato a una pastorale lontana dalla vita e dalla storia del Paese centroamericano.

Pochi giorni dopo la sua elezione, però, uno dei suoi preti migliori e fedeli, il padre gesuita Rutilio Grande, venne assassinato: monsignor Romero trascorse tutta la notte vicino alla sua salma, disponendo che fosse celebrata una sola messa di suffragio in tutta la diocesi. Sarà il sangue di questo sacerdote — dirà lo stesso Romero più tardi — a orientarlo verso la giustizia sociale e la solidarietà verso i più poveri. Nella sua prima lettera pastorale dichiarerà di volersi schierare apertamente dalla loro parte.

Ogni domenica il popolo attenderà con ansia le parole di Romero pronunciate nel corso delle celebrazioni nella cattedrale e diffuse in tutto il Paese attraverso la radio. Parla chiaro l’arcivescovo: vuole la redenzione di un popolo costretto a subire violenze e ingiustizie. La sua voce diventa la voz de los que no tienen voz. Una voce libera che invoca la pace. Dove pace, per monsignor Romero, è anche avere la possibilità di parlare, criticare ed esprimere pubblicamente la propria opinione.

Se le sue omelie domenicali sono molto applaudite, è perché applaudire è il solo modo che il popolo salvadoregno ha di esercitare il suo diritto alla parola. Un diritto che il regime regolarmente nega.

Romero diventa così pericoloso. La stessa sorte di padre Rutilio tocca ad altri quattro sacerdoti, e l’arcivescovo conosce la direzione del suo cammino. «Nel nome di Dio e del popolo che soffre — dirà ostinatamente il giorno prima di essere assassinato — vi supplico, vi prego, e in nome di Dio vi ordino, cessi la persecuzione contro il popolo». Poco prima, del resto, aveva invitato i soldati e le guardie nazionali a disubbidire all’ordine ingiusto di uccidere.

Monsignor Romero è il sacerdote che, assieme al suo popolo, soffre per l’ingiustizia, la repressione, lo sfruttamento. Sa che sono i poveri e gli oppressi a dover segnare il cammino della Chiesa: questa è la sua grande scelta. Questo il suo più grande insegnamento.

Eppure negli anni le incomprensioni sono state tantissime. La sua voce — divenuta quella del suo popolo — non sempre è stata compresa. O, ancor prima, ascoltata: è il buon samaritano che si batte in nome della pace, detestando la violenza, per i poveri, gli sfruttati, i bisognosi, gli ignorati.

«È inconcepibile — disse Romero nel corso di un’omelia il 9 settembre 1979 — che qualcuno si dica cristiano e non assuma, come Cristo, un’opzione preferenziale per i poveri. È uno scandalo che i cristiani di oggi critichino la Chiesa perché pensa “in favore” dei poveri. Questo non è cristianesimo!». E continuò: «Molti credono che quando la Chiesa dice “in favore dei poveri” stia diventando comunista, stia facendo politica, sia opportunista. Non è così, perché questa è stata la dottrina di sempre. La lettura di oggi non è stata scritta nel 1979. San Giacomo scrisse venti secoli fa. Quel che succede, invece, è che noi, cristiani di oggi, ci siamo dimenticati di quali siano le letture chiamate a sostenere e indirizzare la vita dei cristiani». E concluse: «A tutti diciamo: Prendiamo sul serio la causa dei poveri, come se fosse la nostra stessa causa, o ancor più, come in effetti poi è, la causa stessa di Gesù Cristo».

E in occasione della laurea honoris causa conferitagli dall’Università di Lovanio il 2 febbraio 1980, monsignor Romero aggiungerà: «È una novità, nel nostro popolo, che i poveri vedano oggi nella Chiesa una fonte di speranza e un sostegno dato alla loro nobile lotta di liberazione. La speranza che la Chiesa sostiene non è ingenua né passiva. La speranza che predichiamo ai poveri è perché sia loro restituita la dignità, è per dare loro il coraggio di essere, essi stessi, gli autori del loro destino. In una parola, la Chiesa non solo si è voltata verso il povero, ma fa di lui il destinatario privilegiato della propria missione. La Chiesa non solo si è incarnata nel mondo dei poveri, dando loro una speranza, ma si è impegnata fermamente nella loro difesa (…). Esistono tra noi quanti vendono il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali (cfr. Amos 2, 6); quanti accumulano violenza e rapina nei loro palazzi (Amos 3, 10); quanti schiacciano i poveri (Amos 4, 1); quanti affrettano il sopravvento della violenza, sdraiati su letti di avorio (Amos 6, 3-4); quanti aggiungono casa a casa e annettono campo a campo, fino a occupare tutto lo spazio e restare da soli nel paese (Isaia 5, 8)».

«Questi testi dei profeti Amos e Isaia — concluse Romero — non sono voci lontane di molti secoli fa, non sono solo testi che leggiamo con riverenza nella liturgia. Sono realtà quotidiane, la cui crudeltà e intensità sperimentiamo ogni giorno».

Fonte: L’Osservatore Romano

di Giulia Galeotti

Dal 4 al 15 Marzo 2015 parteciperemo alla missione di Verona, organizzata dall’equipe dei nostri frati di Todi che si occupano delle Missioni al Popolo.

I Parroci delle Parrocchie di Gesù Divino Lavoratore, San Giacomo Maggiore e Tomba Extra hanno sentito forte il bisogno di smuovere le loro comunità, di risvegliare nei fedeli lo spirito dei primi cristiani, entusiasti annunciatori della Sua Parola.

Nel pomeriggio di mercoledì 4 marzo ci sarà l’accoglienza dei missionari in chiesa a San Giacomo alle 17.30 circa con le famiglie che ospitano i missionari per un momento di preghiera e saluto.

Tutte le info di questa missione le puoi trovare sul sito internet o sulla pagina della missione.

Chi può venga, chi non può venire ci accompagni con la preghiera!

Gli incontri per i Giovani si terranno da Giovedì 5 Marzo fino a Mercoledì 11 presso la Palestra dei Vigi del fuoco in Via Polveriera Vecchia.

Il Signore ti dia pace!

 

“…Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente e Santo è il suo nome…”

Mai avrei immaginato tanto stupore pensando a quanto mi serbasse il futuro!

Ormai da troppo tempo la vita mi scivolava lentamente tra le dita giorno dopo giorno e io la lasciavo andare … Cinque anni prima per istinto di sopravvivenza, appena ne avevo avuta l’occasione, ero uscita di casa. Gli ultimi anni della mia vita in famiglia erano stati un incubo: nella memoria bruciavano ancora vividi i ricordi di violenze familiari, verbali e non e, come se non bastasse, negli ultimi anni di liceo, avanzava prepotente l’ipotesi di un possibile disturbo psichiatrico di mio padre. Ero iscritta all’università, lavoricchiavo con lo scopo di mantenermi e nel frattempo i miei genitori si stavano separando. Da anni cercavo di intorpidirmi la mente in svariati modi: avevo consapevolmente scelto la morte e ogni giorno ne prendevo sempre di più coscienza, ma ero troppo stanca, vuota e disillusa per riuscire a venirne fuori e mi ritrovavo immobile e sola a guardare scorrere il film in bianco e nero della mia vita.

Era fine ottobre e io ero in cerca dell’ennesimo posto di lavoro … Dio mi ha catapultata “d’inganno” in una missione giovani universitari: io, non credente e ferma sulle mie idee, in mezzo a frati, suore e ragazzi (categoria che fino ad allora era sempre stata oggetto di derisione da parte mia); insomma, ero in un film horror! … mai avrei pensato che potessero bastare solo dieci giorni per segnare una svolta decisiva nella mia vita!

Ricordo la sensazione del primo giorno con loro a tavola: sorridevano tutti, allegri e felici, tranne me.

Furono cinque giorni in cui il Signore mi stava facendo assaporare un po’ del Suo amore e la loro gioia rischiava di diventare una “roba” contagiosa! Nei seguenti cinque ebbi la certezza che quello che stavo vivendo era qualcosa di straordinario. Il mio cuore aveva ripreso a palpitare ed era stato riscaldato, come se avesse iniziato a dischiudersi con un calore che non avevo mai sentito.

In quei giorni uno dei padri che accompagnava la missione mi aveva lanciato la proposta del Capodanno in Assisi. Scesi il 31 Dicembre per rientrare il giorno dopo e durante il viaggio pensavo: “Ma che sto facendo? Se sono scesa fino a questo livello, sto proprio messa male!” . In piazza, prima di entrare in Basilica, in mezzo a tanta gente, incontravo una delle suore che avevo conosciuto in missione, che invitava la ragazza che stava con me, ad un corso dal 2 al 6 gennaio. Mi ci fermai io: il Signore mi aveva dato appuntamento lì per iniziare a guarirmi e il giorno dell’Epifania mi annunciava che Gesù era morto e risorto per salvare proprio me! Prendevo consapevolezza di avere un Padre che mi aveva attesa e cercata tanto: mi tendeva la mano e io mi ci aggrappavo con tutte quelle poche forze che mi rimanevano!

Da subito mi aveva posto accanto dei fratelli a guidarmi e ad accompagnarmi e sostenermi durante il cammino, perché sapeva che la strada era lunga e in salita ed io ero troppo debole per farcela da sola! Mi ha messo subito a servizio e mi ha fatto camminare sulle mie gambe azzoppate: ero claudicante, ma Lui mi sosteneva e mi faceva sentire figlia amata.

Ad un anno circa dalla missione quando, dopo la marcia francescana, capivo che la mia era una storia benedetta dalla misericordia del Padre, arrivava una notizia che mi fece tremare le ginocchia: un tumore in metastasi stava logorando lentamente mio padre, col quale avevo tagliato ogni contatto da molto tempo. Le problematiche che affliggevano i rapporti della mia famiglia mi prospettavano giorni difficili e dentro di me sentivo che il Signore aveva scelto la malattia per riscoprirci padre e figlia, chiudere col passato e scrivere un nuovo capitolo. Appena il lavoro me lo consentiva tornavo a casa e lo seguivo nell’excursus della terapia e, tra radio ed esami vari, scoprivo il significato della parola perdono (che già avevo sperimentato per prima sulla mia pelle) e “sia fatta la tua volontà”. Comprendevo che non era necessaria la grazia di una guarigione fisica, perché quell’esperienza già ci stava sanando e guarendo: Egli sa quando, se, cosa e come operare e non lascia mai nulla incompiuto.

Probabilmente non era ancora sufficiente per la mia testa dura. Infatti nel frattempo da mesi m’ intrattenevo in una relazione difficoltosa con una persona altrettanto difficoltosa. Di ritorno dalla marcia mi ritrovavo col cuore dilatato e m’imbattevo in una “strana forma d’amore”; in lui riconoscevo un mix di caratteristiche che da un lato mi attraevano e dall’altro mi consumavano. Dopo otto mesi aveva toccato il fondo e, in seguito a quel momento, capivo che ad attrarmi tanto erano state le sue povertà (forse insieme alle mie) e che quella relazione mi teneva legata e rendeva il mio cuore sempre più diviso. Imparavo grazie ad un “errore” la differenza tra l’amore che credi sia tale e invece quello che è vero ed autentico: è gratuito e profuma di libertà riempiendoti l’anima!

Era il tempo di Quaresima ed io avevo appena terminato il mio ultimo incarico lavorativo presso un importante multinazionale di abbigliamento: lavoro che non solo aveva assorbito gran parte del mio tempo e delle mie energie, ma che mi aveva portato anche a riflettere su chi ero e sull’importanza che stavo dando alla mia vita. Iniziavo a realizzare che non mi potevo accontentare di questo poco e contemporaneamente il mio cuore mi diceva nel profondo che quello era un tempo favorevole per affidarmi alla provvidenza. Abbandonavo così le redini delle mie certezze e Gli cedevo il timone della mia vita e, anche se non sapevo dove sarei approdata, avevo la certezza che sarebbe stato un porto speciale. Attendevo ed un’altra parola di quei giorni mi risuonava dentro come un eco: “Mi condusse poi verso l’ingresso del tempio e vidi che sotto la soglia del tempio usciva acqua verso Oriente… E vidi che l’acqua scaturiva dal lato destro… Era un fiume che non potevo attraversare, perché le acque erano cresciute, erano acque navigabili, un fiume da non potersi navigare a guado… (Ez 47, 1-12)”.

Una settimana prima di Pasqua scoprivo così quanto è “pericoloso” il Signore e quanto bisogna stare attenti a quanto Gli si chiede, perché questa volta mi aveva proprio preso in parola!

Un giorno, finita la messa, mi sento chiamare dal frate assistente della mia fraternità che, sapendo che al momento non stavo lavorando, mi proponeva un servizio per il convento.

Spiegandomi che era stato contattato per una richiesta di accoglienza, per il periodo da Aprile a Giugno, per sei uomini africani rifugiati, e che si era già confrontato con il resto della fraternità al riguardo, era in attesa del loro benestare. Si richiedeva perciò una persona che si occupasse di loro nei mesi a venire. Dalle mie labbra uscì subito un sì, quasi senza riflettere, e pensai subito che era arrivato il momento per me di restituire l’amore gratuito che avevo ricevuto.

Trascorsi la notte in attesa e pensai che forse era così che si era sentita Maria, quando aveva ricevuto l’annuncio e continuavo a ripetermi: “Rallegrati, o piena di grazia, e non temere perché hai trovato grazia presso Dio.” (Lc 1,28-30). Allora lei rispose: “Eccomi, sono la Serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto.” (Lc 1, 38). E non: “Aspetta un momentino che qui mi stai sconvolgendo tutti i piani e io avevo programmato altro…”.

Cresceva in me la trepidazione per il nuovo giorno ed una buona notizia: due giorni dopo l’”annuncio” mi veniva confermato che il gruppo sarebbe arrivato il 12 Aprile.

Pioveva e li ho incontrati sulla soglia delle loro camere nel corridoio del convento destinato all’accoglienza al povero. Ricordo le loro facce, diverse fra loro per fisionomia, ma l’espressione inconfondibile era la stessa ed era l’insieme di stanchezza, paura e diffidenza.

Una certezza fu immediata: mi era stato affidato un dono fragile, che si chiama Animo Umano; un dono da coltivare, amandolo e custodendolo. Trascorrevano i giorni e pian piano iniziavamo a sentirci tutti parte della stessa famiglia.

Nel frattempo il corridoio ha accolto altri due uomini. Ad oggi ne accoglie un totale di nove e me, che cerco di destreggiarmi in questo splendido viaggio, pieno di traffico, di isole pedonali , di sosta e di marciapiedi da percorrere per mano da ormai nove mesi.

Sì, questo corridoio accoglie anche me: all’apparenza non mi manca nulla, ma è grazie a questi “piccoli” che non piacciono a questa società ghiotta di benessere, che mi riscopro sempre più bisognosa.

Tante volte cammino per la strada e mi domando perché la società rifiuti con tanta indifferenza i poveri, lasciandoli ai margini e alle periferie non solo delle strade, ma anche dei cuori. Una risposta l’ho trovata e potrebbe riassumerle tutte:” Perché loro fanno venire fuori tutte le nostre miserie, le sozzure e tutte le povertà che ci abitano. A loro Dio affida la capacità di far riaffiorare in noi la difficoltà di comprendere profondamente (e conseguentemente di applicare) la meravigliosa “voce del verbo amare”.

Non so perché il Signore abbia affidato a me questi pochi, ma preziosissimi talenti, ciò che so però è che è dato a me farli “girare” per farli fruttificare. Oggi come ieri, un balsamo per il cuore continua a rinnovarmi: “Ecco, io vi dico: Levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. E chi miete riceve salario e buon frutto per la vita eterna, perché ne goda insieme chi semina e chi miete … (Gv 4, 35-36)”. E nel mentre, mi lascio forgiare l’animo affinché l’acqua che sgorga dall’interno del tempio, dopo averlo colmato, fuoriesca dalle sue mura dando vita alle terre aride circostanti, inondandole come un fiume in piena.

Marina

“Una settimana … di Dio”: la Grazia della Missione Giovani a Capua

“L’emozione non ha voce …”: così cantava Adriano Celentano. Ed è proprio così. Come si può pensare di tramutare in parole ciò che, di diritto, appartiene solo al cuore? Sarebbe come cercare di afferrare l’aria, trattenere il respiro, fissare il sole per più di cinque secondi. Altrettanto ‘titanica’ sembra l’impresa di spiegare, riassumere, fare opera di sintesi di quanto è accaduto qui, a Capua, in quella che potrebbe essere definita “Una settimana … di Dio”: dal 6 al 14 dicembre, la città ha vissuto la gioia della celebrazione di due Sacramenti, un’Ordinazione e un Matrimonio, e ha accolto la Missione Francescana per i giovani. Un tempo, questo, di immensa Grazia! È come se il Signore avesse voluto ulteriormente dimostrare quanto grande e abbondante sa essere il Suo modo di donare, regalando ai figli Suoi un assaggio di quella felicità e di quella beatitudine che, amplificata all’infinito, ha preparato per ognuno di noi in Paradiso. In modo particolare, il Buon Dio, in questo Tempo di Avvento, che è tempo di attesa e speranza, ha voluto, senza mezze misure, rispondere alle ‘attese’ di quei figli Suoi che non smettono di avere ‘fame e sete’ di felicità: i giovani. Diceva San Giovanni Paolo II: “È Gesù che cercate quando sognate la felicità, è Lui! E vi aspetta quando niente vi soddisfa di quello che trovate. È Lui la bellezza che tanto vi attrae, è Lui che vi spinge a deporre le maschere che rendono falsa la vita, è Lui che vi legge nel cuore le decisioni più vere”. Noi giovani siamo soliti dare alla felicità vari nomi, identificandola con grandi obiettivi di vita: essere importante, divertirsi sempre, essere famoso, fare un mucchio di soldi, diventare un campione, eccellere nel lavoro … si potrebbe continuare all’infinito, perché infinita è la nostra sete di felicità. E seppure ci capita di vivere anche in una sola di queste circostanze, sentiamo, comunque, che manca qualcosa: rimane uno strano sapore amaro, come se qualcosa non si fosse ancora totalmente compiuto. Molto spesso, il raggiungimento di grandi traguardi ci abitua a gioire solo delle grandi cose, dimenticando quelle piccole e significative forme di felicità che ci passano sotto gli occhi nel quotidiano. Felice sembra essere, pertanto, colui che ha tutto, colui che è realizzato nelle cose che ha progettato di fare: lavoro, famiglia, figli, amici, fidanzato, studio … E Dio? Viene messo tra parentesi, e, all’occorrenza, come un distributore automatico, ci torna utile a seconda della richiesta che ‘guai a Lui!’ se non esaudisce: sarebbe la prova che non esisterebbe (e forse la conferma-scusa che cerchiamo per tenerLo una buona volta fuori dalla nostra vita!). Ebbene: felici noi, beati noi e beati tutti coloro che hanno avuto la Grazia di sperimentare la gioia che il Signore ha donato a tutti i giovani attraverso la Missione francescana! Non è materialmente possibile esprimere gli effetti di questo ‘vento dello Spirito’ che, dal 9 al 14 dicembre, ha costantemente soffiato sulla città, per le strade, nelle scuole, nelle famiglie, tra i giovani, nelle chiese. Il Signore si è servito di umili ‘lavoratori della vigna’: dieci suore, dieci frati e sedici giovani sono stati capaci di fermare il tempo, trasformando la settimana di Missione in un unico grande giorno di festa, una domenica senza fine! Un assaggio di Paradiso? Questo è certo! Benedetto XVI ci ricorda, nel suo libro Il Dio vicino, che “la vita eterna non è un’infinita sequenza di istanti, nei quali si dovrebbe cercare di superare la noia e la paura di ciò che non può avere fine. La vita eterna è quella qualità nuova dell’esistenza, in cui tutto confluisce nel ‘qui e ora’ dell’amore, nella nuova qualità dell’essere. Poiché si tratta di una qualità dell’esistenza, essa può già essere presente nel mezzo della vita terrena e della sua fuggevole temporalità”. Esperienza di vita eterna, dunque: assaggio di quel banchetto che il Signore ha preparato per ognuno di noi.

La città ha respirato aria di festa, di pienezza e di pace! Ogni giorno, sin dalle prime ore del mattino, i nostri missionari affidavano al Signore la loro giornata, coi loro timori ma anche con le loro gioie: dopo aver ‘fatto il pieno’, ricaricandosi spiritualmente mediante la preghiera delle Lodi dinnanzi al Santissimo Sacramento, esposto nella chiesa dell’Annunziata, i missionari si mettevano in marcia, incontrando i giovani nei luoghi da loro più frequentati: ogni mattina, nelle scuole, elementari, medie e superiori, e presso l’università di Economia; nel pomeriggio, per le strade della città e nei locali più frequentati. Accolti da un sorriso, molti giovani si sono aperti con gioia e curiosità all’invito di fra Manuel, fra Diego, fra Francesco Pio, fra Gianluca, e poi di suor Chiara, suor Gabriella, suor Eva, suor Monica, e dei giovani Simone, Irene, Elisa, Francesca, Andrea, Giacomo, Giorgia … È bello scrivere i loro nomi, è bello poterli riconoscere, ricordare i loro volti, i loro sorrisi accoglienti, quegli stessi sorrisi che hanno riempito di tangibile gioia la chiesa dell’Annunziata, fulcro di tutti gli incontri, e le strade della città. Sin dall’inizio, il senso della Missione è stato sempre questo: “Venire a cercarti!”. Il bisogno di essere cercati è forte nei nostri giovani, e lo si è visto da come hanno aderito a tutti gli appuntamenti per loro preparati: colloqui e confessioni con alcuni frati, dinnanzi a Gesù, esposto sull’altare dell’Annunziata, che accompagnava, ispirava e custodiva le preghiere, le lacrime e i desideri di ogni giovane che sopraggiungeva; e ancora, la Santa Messa celebrata ogni sera, affiancata dalla preghiera dei Vespri e seguita, poi, dagli incontri di catechesi. Volti nuovi, volti incuriositi, all’inizio forse anche un po’ diffidenti. Ma è bastato poco, davvero poco per far sentire tutti questi giovani a casa, nella loro casa, la Chiesa di Dio. In particolare, proprio le catechesi sono state decisive: seguendo un cammino preciso, ogni giovane è stato accompagnato, con dolce e paziente gradualità, alla scoperta di se stesso e alla ri-scoperta del proprio rapporto con Dio. Seguendo un po’ lo schema tipico di Papa Francesco, tre sono state le parole-chiave che hanno scandito il percorso a tappe: conoscersi, decidersi e giocarsi. Parole decisive, che da sole bastano a ‘stanare’ tutte le nostre paure e ci fanno finalmente avere quel ‘colloquio’ con noi stessi che, per inerzia, pigrizia e timore tendiamo sempre a rimandare, fino a dimenticarlo. Ma il Signore non si dimentica mai di noi, e prima o poi ci mette di fronte a quel che siamo: fragili, e sempre bisognosi di perdono. In una testimonianza, fra Fabio ha detto: “Se cerchi la perfezione, lascia perdere. Se cerchi la santità, mettiti in cammino”. Essere cristiani, ci ha spiegato, non significa raggiungere l’apice della perfezione, che non appartiene a noi ma solo al Nostro Creatore: essere cristiani significa soprattutto ri-conoscersi figli, figli amati dal Padre. E il Padre ci ama così come siamo, “a partire dai piedi”, a partire, cioè, dalle parti più sporche, più misere. Come ci ha spiegato, poi, fra Francesco, Dio non si vergogna di noi, non prova ribrezzo nell’abbracciare i nostri peccati, anche quelli più grandi; Dio non ci vuole perfetti, bravi, intelligenti, brillanti, perché nessuno è veramente così, anche se nella società molti vivono con queste maschere. Dio ci vuole solo belli, e la bellezza non è sporca; la bellezza profuma: viene dall’aver abbracciato il progetto d’Amore che Dio ha per ciascuno di noi, specialmente per i giovani, in cui sono riposti i più alti desideri e le più alte speranze. Non siamo chiamati a vivere la vita che gli altri si aspettano che facciamo: ognuno ha una sua vocazione, e solo il Signore può aiutarci ad ascoltare la voce che parla al nostro cuore. Dobbiamo, però, liberarci di tutto ciò che ‘pesa’: sulla Croce, ci ha spiegato fra Gianluca, Gesù resta con le braccia spalancate e non incrociate, poiché non vuole respingerci, ma accoglierci, abbracciarci; vuole che diamo a Lui tutti i nostri ‘pesi’, le nostre paure, le nostre incertezze, i nostri fallimenti quotidiani, poiché solo Lui ci libera da tutto. Ma per fare questo, bisogna eliminare tutte le false immagini che di Lui ci siamo costruiti (il Dio lontano, assente dalla nostra vita; il Dio ‘boss’, che sta a giudicarci dall’alto e a tener conto di ogni singolo errore che commettiamo; il Dio ‘distributore’, a cui ci rivolgiamo solo quando desideriamo che, a comando, risponda subito alle nostre esigenze, erogando favori e grazie su misura). Insomma, riconoscere Dio come quel Padre che non solo ha desiderio di amarci, nonostante i nostri errori, ma soprattutto vuole fare di noi strumenti del Suo Amore. Lui si serve di noi perché vuole farci scoprire che vale la pena giocarci per Lui, puntare su di Lui, senza paura, col cuore ricolmo di gratitudine per tutto ciò che ci dona. C’è un canto che ha accompagnato tutta la Missione: “Lode al nome Tuo, quando il sole splende su di me, quando tutto è incantevole; lode al nome Tuo, quando io sto davanti a Te, con il cuore triste e fragile, lode al nome Tuo”. Nella gioia e nel dolore, vale sempre la pena lodare il Signore e confidare solo in Lui, perché solo Lui può rispondere a quell’immensa sete di verità e di pace che grida dal profondo di ognuno.

Di fronte alle tante povertà che noi giovani sperimentiamo, di fronte alle incertezze del nostro tempo, il Signore ci dona la certezza che non siamo soli! Non ci promette assenza di problemi, ma ci assicura il Suo imperituro e sovrabbondante Amore, dimostrato col sacrificio della Croce. E come non gioire, dunque! Come non essere grati a Dio per il fatto di essere cristiani! I missionari, aiutando noi giovani a scoprire noi stessi e a rivalutare il nostro rapporto con Dio, è come se avessero tolto strati di polvere depositati sul cuore, e ci hanno lasciato un mandato importante: farci noi tutti testimoni di questa gioia! Non dobbiamo ‘convincere’: qui non si tratta di fare proselitismo (come dice Papa Francesco), o di difendere la ‘causa’ di Gesù. “Dio non ha bisogno di avvocati, si sa benissimo difendere da solo. Dio ha bisogno di testimoni”, dice don Tonino Bello: testimoni credibili e gioiosi; testimoni che siano profeti, uomini di fiducia e amici del Signore. A missione conclusa, non si può fare a meno di sentire la nostalgia per la bellezza di quanto accaduto in città. Ma i missionari non sono realmente andati via: tutti ci hanno lasciato un mandato, tutti ci hanno insegnato qualcosa, ed hanno gettato il primo seme: ora sta a noi, giovani della realtà di Capua, raccogliere buoni frutti, dando senso e continuità a quanto i missionari hanno avviato, partecipando ad un progetto di pastorale che vuole accompagnare ogni giovane in cammino verso l’immenso Amore del Cristo che della nostra vita vuole fare un vero capolavoro, unico, speciale e significativo. Ai Suoi occhi, ognuno di noi è prezioso: come diceva fra Francesco Piloni, “Noi valiamo il Sangue di Cristo, e lo valiamo tutto, perché Lui ci ama alla follia!”.

Giusy