“Vuoi venire alla missione Giovani a Roma?”

“Boh… va bene”

È iniziata così per me la Missione. Non troppo convinto, senza pensarci più di tanto.

Non sapevo bene come funzionasse una “missione”; sapevo solo che rompere le scatole ad altre persone per qualcosa che a loro non interessa, è una cosa che detesto.

Da quando anni fa ho smesso di fare il PR per una discoteca, da quando ho finalmente smesso di stressare la gente per convincerla a venire da qualche parte, pensavo di non dovermi più trovare in una situazione del genere.

E invece è successo. È successo da venerdì 9 Ottobre sera quando, appena arrivati a Centocelle, siamo stati lanciati per le strade di Roma, in una serata di pioggia, in un quartiere di universitari che dal mio punto di vista l’ultima cosa che volevano era essere fermati da un gruppo di ragazzi, frati e suore, che volevano parlare con loro e invitarli a degli incontri non ben chiari che sarebbero iniziati la settimana dopo.

Non ti nascondo la mia perplessità per quanto avevo cominciato a fare! Puoi immaginare un giovane che si stava bevendo una birra con gli amici, o che si stava girando una canna, come poteva rispondere a una proposta del genere… Soprattutto se quello che gli stava di fronte ero io, io che lì per lì non ci credevo neanche un po’ che quello che gli stavo dicendo lo interessasse anche solo lontanamente!

Allora ho deciso di prenderla come un gioco. Devo fare questa cosa? Va bene, facciamola… basta che finisca presto! Però dieci giorni sono lunghi… e al terzo, fratello/sorella mia, stavo davvero scoppiando…

Va bene la pioggia, va bene che c’è chi ti deride, va bene che c’è chi non ti calcola proprio, va bene…. Ma io sono qui… perché? Perché sto facendo questa cosa? Forse devo smetterla di accettare tutto quello che mi viene proposto… forse ci sono cose fatte per me e cose che non sono fatte per me, e devo solo imparare a discernere meglio…

Erano questi i pensieri che mi abitavano! Però almeno vedevo che non ero l’unico, e questa era una magra consolazione. Certo non sufficiente…

I giorni seguenti hanno cominciato a spiegarci meglio cosa vuol dire essere missionari, essere apostoli, mandati. Noi in effetti eravamo stati mandati dal vescovo, nella prima messa, con un vero e proprio mandato della Chiesa.

C’è un tempo per essere discepoli, per ascoltare, per meditare, per fare luce e verità dentro… C’è un tempo per essere apostoli, per portare quella luce e quella verità fuori di noi e illuminare…

In effetti se si rimane sempre e solo discepoli è come continuare a mettere olio in una lanterna senza accenderla mai… quell’olio prezioso che ti hanno versato dentro prima o poi deve farsi luce, deve farsi voce. Altrimenti che cosa serve?

Ma io questo che ti dico qui, là lo intuivo appena! Erano passati tre giorni, e io mi stavo sovraccaricando. Cominciavo a vedere davvero la povertà e la pochezza di certe persone che incontravo: delle facciate inscalfibili, delle vere e proprie corazze, erette contro chi stava soltanto cercando di portarti un po’ di sé, perché credeva che questo potesse in qualche modo riguardarti…

Quello che mi ha sconvolto però è che cominciavo a vedere non soltanto la loro povertà e pochezza… queste persone mi riflettevano tutta la mia di povertà e di pochezza! La mia chiusura, la mia facciata e corazza inscalfibile che avrei certamente esibito se io fossi stato al loro posto a bere una birra con certi miei amici…

Non basta sentire di avere molta fede, sentirsi vicini a Dio: la vera partita si gioca in strada, nella vita con gli altri. Cristo andava per le strade! Lui, vero uomo, non si è ritirato su un monte o in una città per stare da solo con Dio!

Se quella fede che dici di avere non s’incarna nelle tue relazioni, nel tuo metterci la faccia e nel prendere una posizione, allora la fede diventa solo una consolazione, un luogo sicuro in cui coccolarsi o crogiolarsi.

Io non sono riuscito ad entrare in questo passaggio fino a che non mi ci sono trovato dentro… o meglio, finché non mi ci hanno fatto trovare dentro.

Vedi, per me non era mai il momento di prendere una posizione: ‘Ci saranno altre occasioni…’ dicevo ‘questa non è l’occasione giusta per intervenire’. Oppure ‘Se adesso mi espongo non sarò più credibile e non riuscirò poi a far capire il messaggio cristiano che invece c’è dentro di me…’

Chiacchiere. Giustificazioni.

Pensi di essere testimone al momento giusto, ma non c’è un momento giusto. C’è un unico momento, che è questo. E ogni volta, sempre con gentilezza e buon senso, scegli di essere con Cristo oppure di rinnegarlo come fecero Pietro e Giuda il venerdì santo.

La buona notizia è che tutte le volte che lo hai rinnegato e che lo rinnegherai, Lui ti ha già perdonato e ti perdonerà… ma non senza sacrificio. Perché tu vali il sacrificio di Cristo, sempre. Ma non approfittarne in modo apatico, non essere indifferente a questo Suo sacrificio!

È esattamente questo che mi è scattato dentro dopo il terzo giorno della missione: quando, carico e gonfio della povertà e della sofferenza di molti sguardi incontrati, dopo aver incontrato anche il mio volto in mezzo a tutta quella folla di pecore senza una guida, il cuore mio si è mosso a compassione e davanti al Santissimo sono scoppiato in lacrime. Ho pianto tanto la terza sera, molto e per molto tempo.

Ora ho ricostruito il tutto, e ti posso quindi raccontare questa rilettura… Ma lì, gettato in ginocchio davanti al corpo di Cristo, piangevo e basta.

Vedevo la mia sofferenza, ero carico di quella delle persone incontrate e di quelle che vedevamo per strada a elemosinare un po’ di soldi o un po’ di attenzioni.

Ho capito perché ero lì, perChi ero lì. Ho capito che la sofferenza che portavo dentro era la stessa di Cristo… è chiaro che il paragone non regge il confronto. Io ci ho messo la faccia, al massimo ho preso qualche insulto, Lui si è preso delle flagellate e delle percosse ed è morto in croce per me… Ma ora, là, Gesù non mi stava chiedendo di morire in croce, né di prendere flagellate sulla schiena. Mi stava chiedendo di metterci la faccia per lui. Tutto qui. Poco o molto, quello era.

La missione è durata all’incirca un’altra settimana dopo quel momento, e tutto poi aveva preso un’altra piega… Non era più un gioco fastidioso, ma la mia vita giocata per qualcuno. E vedevo che ciò che avevo capito, anzi, quello che il Signore mi aveva fatto capire, esercitava una forza anche sulle altre persone che incontravo! Riuscivo a spiegarmi e a dire loro perché stavo facendo questa cosa e perché ero felice di farlo nonostante la fatica… riuscivo anche a far capire loro che m’interessava la loro felicità! Perché era vero! Non era più uno stressare gli altri né un convincerli a venire a questi incontri…

Era una mano tesa, uno sguardo che riesce a esserti vicino, a entrare in confidenza…. E là dove non si riusciva ad entrare, un sorriso e un saluto lasciavano comunque un precedente.

Partite sempre dal Santissimo, e tornate sempre al Santissimo.

È stata questa la chiave per entrare nella missione. Missione che non si è esaurita a Centocelle, ma che è stata dinamite per scoprire che anch’io posso essere quel volto d’amore che una volta mi ha guardato, e che mi guarda tutt’ora quando ho occhi per vedere. Gratuitamente hai ricevuto, gratuitamente dà. Dà per vivere nella persona di Gesù Cristo vivo e non nel Suo ricordo; dà per essere parte e sentirti parte di un corpo che è sposa di Cristo: una Chiesa che è Una, Santa, Cattolica e Apostolica.

 

 

“Li mandò a due a due..” per sicurezza,noi,siamo stati mandati in sessanta. Destinazione Roma – Centocelle – Missione Giovani.

Mi piace viaggiare in treno, guardo fuori e un po’ mi fa ridere questo viaggio inaspettato, un SI un po’ incosciente e curioso. Non è da nemmeno un anno che frequento Assisi e quante cose si sono trasformate, quante avventure, quanti incontri. Ma il mio incontro-scontro con i frati, in realtà avviene tre anni fa, proprio in una missione giovani, a Bologna, la mia città.

La missione a Bologna per me è stato un punto di ripartenza, riscoprire ciò in cui credevo di credere. E’ stato talmente sconvolgente che prima di andare ad Assisi ci ho messo due anni, insomma, mi ci è voluto un po’ per metabolizzare e decidere di partire sul serio, di intraprendere un cammino e realizzare il desiderio di felicità.

Ed ora in questo cammino sono stata chiamata, insieme ad altri sessanta, fra ragazzi, frati e suore di Assisi a testimoniare il mio incontro con la Misericordia di Dio ai giovani di Roma che incontreremo, a sperimentare la strada degli Apostoli, a restituire ciò che abbiamo ricevuto.

Ognuno, con il suo bagaglio e le sue paure, ha lasciato la sua piccola realtà per essere incontro, per essere sguardo, mani e piedi della Parola, di quella che ci ha riempito la vita,della Parola che per me è diventata Bellezza.

La mia preparazione apostolica non è delle migliori, ho qualche problema con il numero di tuniche, sandali e contenuto della bisaccia, nel dubbio porto un po’ di tutto, cercando di avere un piccolo appiglio sicuro in questo viaggio che non so proprio cosa mi riserverà.

Sperimentare il dono dell’Amore di Dio è il dono più bello che si possa ricevere, sperimentare l’essere dono lo è ancora di più.

Il dono nasce già dalla chiamata, da quello Sguardo che si fida di te, te che non sai nemmeno da che parte sei girato; quello sguardo che ti ama, ti accoglie per come sei e ti affida la sua vita. Ci è stata affidata la Sua bellezza per esserne testimoni, la sua luce per essere speranza, il sale per essere gusto e nutrimento, lievito per far crescere i desideri belli del cuore.

Essere missionario è fare esperienza del Suo cuore, è lasciar perdere il tuo io e far spazio a Lui.

Nessuna pretesa di riuscirci ovviamente, consapevoli di quanto il nostro cuore sia limitato e di quanto il Suo amore sia eterno. Ma quanta gioia anche solo sperimentarne un pochettino!

Ma come può l’infinito dentro un piccolo cuore umano? Solo se non trattieni niente per te, solo se ti fai strada puoi vivere i fratelli, puoi essere canale e strumento della benevolenza di Dio, canale e strumento delle sofferenze degli altri.

La missione è davvero qualcosa che puoi toccare, è esperienza di Vita piena.

Piena di sguardi, di occhi che ardono, occhi luminosi, che sorridono, che cercano conforto, occhi persi che desiderano la felicità, occhi impauriti, occhi che vogliono amare, che cercano, curiosi della vita, occhi che si difendono, occhi che nascondono, occhi che si lasciano amare; occhi che rimangono nel cuore.

Ho scoperto tante cose di me negli occhi dei fratelli che ho incontrato, ho visto il mio riflesso, le paure del passato, le mie riserve, la ricerca di uno sguardo d’amore che ho sperimentato tante volte, la paura di essere scoperti, perché negli occhi si vede ciò che sei, sei nudo, spogliato delle tue maschere, gli occhi sono la strada che porta diritta al cuore, alla tua parte più intima.

E’ una grazia enorme poter avere gli occhi dei discepoli, che scrutano la realtà, che sanno vedere la verità, quegli occhi che sanno riconoscere nel tuo fratello, nel tuo prossimo, Gesù.

Questo allora cambia tutto, le tue relazioni nascono dall’accoglienza, dal riconoscere la sacralità dell’altro, nel vedere in ogni fratello la luce di Dio, nel riconoscere nel fratello la fragilità e l’umanità di Dio. Da qui nasce la compassione, sperimentare nel tuo cuore le gioie e le sofferenze del fratello. Sentire il cuore che batte davvero insieme a quello di chi ti sta accanto.

E non importano più le differenze di opinione, le differenze di vita, quel tuo fratello ha il tuo stesso cuore, gli stessi occhi che desiderano solo essere amati, e ogni persona che incontri nel cammino è parte di te, e ogni incontro che fai diventa parte di te, questa vicinanza allora ti chiede solo una cosa: condividere tutta questa bellezza che porti nel cuore e donare all’altro una parte di te. Non ha importanza perdere qualcosa di te, perchè sai che diventerà parte del fratello. Non ha importanza la paura di mettersi a nudo, di togliere le maschere, non ha importanza proteggersi, perchè un cuore chiuso non batte con quello degli altri, è solo, ripiegato sul suo ritmo, solo un cuore spogliato può incontrare e farsi vicino al battito del prossimo e prendersene cura.

E non c’è modo migliore del prendersi cura che restituire ciò che hai ricevuto e servire chi ti sta accanto.

Restituire è il contrario di possedere, restituire è imparare ad essere grati, rendersi conto che non sono le tue capacità a renderti un bravo missionario, ma semplicemente il desiderio di far sperimentare cosa vuol dire essere amati  per ciò che si è.

Ma per far sentire amato chi ti sta di fronte è necessario saper accogliere, e questo è veramente faticoso, perchè sa accogliere chi ha accolto per primo sè stesso, perchè l’ incontro con l’altro parla sempre di te, le resistenze verso l’altro sono esattamente lo specchio che non vorresti mai avere di fronte, e allora per accogliere bisogna mettere da parte davvero il proprio IO, rendersi conto che se rimani IO, non potrai che restare da solo, senza un TU da accogliere non esiste relazione, non esiste amore.

Ogni esperienza di amore gratuito è un’esperienza di sconfitta, è perdere qualcosa a cui ti attacchi da una vita, e perdere diventa l’esperienza più liberante che ci sia; la vittoria più bella perchè fa spazio all’amore.

Si crede anche che chi serve sia lo sconfitto, ma solo un vincitore si sa abbassare, solo chi vince l’idea di essere perfetto sarà libero, solo chi vince l’istinto di prevaricare sul fratello, che è parte di te, saprà amare. E amare è servire: amare gratuitamente è essere libero.

La missione, essere apostoli è fare esperienza del cammino di Gesù, dei suoi sentimenti; è sperimentare la Pasqua, prendere la propria vita è restituirla, facendosi testimonianza.

Consumarsi per gli altri, testimoniare, ci ha dato l’opportunità di essere vita attraverso la nostra vita, di essere speranza attraverso i nostri i nostri occhi, le nostre mani, le nostre fatiche; ci ha permesso di fare delle nostre morti, vita per gli altri.

Ogni volta che abbiamo perso qualcosa di noi, abbiamo guadagnato qualcosa per chi ci stava accanto.

Missione è essere fecondi; è generare vita secondo il Suo cuore.

Sofia

Dio è davvero esagerato. E L’esagerazione è la misura che ho sempre ricercato nella mia vita e che non sono mai riuscita a raggiungere. Cercavo l’eternità nel tempo, la smisuratezza nell’amore e il massimo in ogni risultato.
Ma tutto questo lo ricercavo nel mondo e lo trovavo solo sotto forma di surrogati. Perfino Dio nella mia vita aveva sembianze e misure umane.
Sono arrivata alla marcia con il desiderio di lasciare a casa le preoccupazioni e prendermi una vacanza dal mondo, dall’università e dagli stessi amici che mi stavano stretti da tempo. Cercavo tempo libero per me… Volevo dare spazio alla mia ricerca della felicità.

Sono arrivata alla marcia senza aspettative e senza programmi ed è una cosa insolita per me. Mi ero costretta a disorganizzarmiper una volta e a fidarmi degli altri.
Facendo lo zaino la sera prima della partenza, ero stata attenta a caricarlo solo con lo stretto necessario, ma mi sembrava in ogni caso pesante. Ignoravo che da anni mi portavo nel cuore macigni enormi e che nella testa c’erano montagne di rifiuti che aspettavano solo di essere smaltiti. Mi ero preoccupata di svuotare il mio bagaglio materiale, ma avevo scordato di dare tregua al cuore e alla testa, in completa carenza d’ossigeno. Stavo troppo bene immersa nei miei impegni che mi evitavano tante domande e impedivano al silenzio di entrare e allestire il salotto per il mio incontro con Dio.
Alla marcia sono arrivata desiderosa di mettere ordine, ma senza sapere da dove partire e senza il coraggio di farlo sul serio. Tutto il coraggio di oggi è arrivato marciando, è arrivato accorciando ogni giorno, passo dopo passo, la mia distanza da Cristo.In ogni momento avrei potuto fermarmi, chiedere aiuto…Tornare indietro…Ma Dio era sempre un centimetro più vicino del momento prima e io volevo esagerare.Questa volta mi ero ripromessa davvero di fare il colpo di mano. Di toccare le sue vesti come l’emorroissa e mettere le mie mani sulle sue ferite come Tommaso. La mia determinazione e la mia testardaggine sono stati gli strumenti che più ho benedetto nella preghiera e di cui Dio si è servito per allungare il mio passo verso di lui.

I momenti di silenzio sono stati il mio sacrificio più grande. Non li desideravo, perché mi costringevano ad ascoltare tutto quello che da sempre avevo messo in modalità silenziosa. E poi mi suggerivano di fare spazio ai progetti di Dio, e io non avevo intenzione di lasciare la mia vita nelle mani di qualcun altro. Non me lo sarei mai concessa. Ma il tempo dei cambiamenti era vicino e io stessa mi ci avvicinavo senza farci caso.

Dall’incontro con le clarisse, il primo giorno, ho realizzato che Dio ti chiama ad operare per l’eternità. Dio non è mediocre e non sa cosa siano le mezze misure, le sfumature di grigio, le decisioni prese a metà, non ragiona sottraendo e dividendo. Dio moltiplica e aggiunge.“Giocatevi la vita per niente di meno che l’eternità… Fate scelte che siano per sempre”,a me questo invito piaceva. Era esagerato, provocatorio, e mi spaventava. Per lanciarsi in qualcosa di eterno ci voleva coraggio. E io non ne avevo.
“Cerco il tuo volto che mi cerca” questo ci cantavano le consacrate mentre, tra i muri silenziosi del monastero, intessevano Lodi a Dio. Non sapevo spiegarmi la pace che respiravo. Lì il tempo sembrava essersi fermato. Guardavo i trecento marciatori e guastatori che Dio aveva scelto come compagni di viaggio per me e non vedevo nulla di familiare, eppure mi sentivo a casa. Dio sapeva che cercavo casa da tempo… Nel cuore delle persone. E che il mio desiderio di trovarla mi avrebbe portato più vicino a lui di quanto potessi immaginare.
Continuavo a tenere a mente le coincidenze che si verificavano dall’inizio della marcia e a riguardarle ora, vedo quanto combaciavano con le intenzioni di Dio. Voleva sorprendermi e farmi abbassare le difese.
Ci è riuscito soprattutto al secondo giorno di marcia, quando mi è scoppiata una vescica! E mi sono riscoperta “non allenata”, “non pronta” fisicamente a quei chilometri che avevo considerato un’impresa da niente, per una sportiva come me. Dio stava facendo la sua parte e stava mostrando alla Beatrice esagerata, che non esiste alcuna preparazione adeguata al suo incontro. Perché la bellezza di Dio sta nell’imprevedibilità… E nel non-calcolo. Io avevo ancora una volta cercato di controllare tutto a mio modo, evitando l’infermeria per giorni, dimenticando di chiedere aiuto e di fermarmi. Ero troppo impegnata a guardare me stessa per accorgermi che già tante mani si erano offerte di aiutarmi. Dio tentava di comunicarmi qualcosa… Ma ascoltarlo avrebbe significato stare ai suoi piani, che io consideravo d’emergenza.
Al quarto giorno ho iniziato a farmi medicare le ferite, ho apprezzato la pazienza di Dio e disprezzato la mia testardaggine. Ho sperimentato la bellezza di farsi amare da Dio per mezzo degli altri. E toccato con mano la grandezza di un piccolo e debole amore riflesso, che attinge alla sua fonte copiosa e limpida.

Mentre scrivo queste parole, riconsidero tutti i “no” che ho detto prima delle marcia e benedico quel “si, vengo” che mi ha trascinata ad Orvieto il 25 luglio. Realizzo che questa era la mia occasione per fare sul serio con Dio e passare da una bella-vita a una vita-bella.
II tempo che dedichiamo a Dio è tempo che profuma di eternità e che non si esaurisce con il finire della clessidra. I giorni trascorsi in marcia sono fissati per l’eternità, insieme agli sguardi di chi era con me. Avevo amici vicini ma estremamente lontani, ora ho amici lontani ma estremamente vicini. Credevo di essere felice, adesso sono felice di credere. Pensavo di poter vivere da sola, ora mi rendo conto che vivere è condividere. Davvero in quei giorni quello che credevo impossibile nella mia vita è diventato quotidianità. Tutto questo lo devo a Dio.
Ringrazio anche i marciatori e i guastatori, i frati e le suore mi hanno portata a lui. Perché sono entrati nella mia vita con il desiderio di cercarlo, e nell’incontrarlo me lo hanno portato più vicino di quanto potessi credere possibile. Donarsi e spezzarsi per gli altri è amare da Dio.
E solo OGGI è il giorno perfetto per iniziare, perché con Dio, IL MEGLIO DEVE ANCORA VENIRE.

Ho iniziato il pellegrinaggio nel desiderio di cercare Dio e ho sperimentato che è impossibile desiderare davvero qualcosa e non ricercarla a fondo. Quando questo non succede è perché ad abitare in noi ci sono compromessi sbagliati, tutto quello che io chiamo “Inquinamento luminoso”.
Dio non se ne fa niente della luce artificiale, delle tue piccole soddisfazioni, del tuo tempo speso a festeggiare per dimenticare le insoddisfazioni e gli insuccessi, Lui non se ne fa niente delle tue maschere sorridenti, perché in te ricerca il volto originario, quello che ti ha donato il giorno che sei venuto al mondo. Lui aspetta con pazienza che tu faccia le rughe e pianga… che tu stia al buio per portarti alla luce del giorno. Scava nelle tue tenebre per ricercare dentro di te l’anima vergine, la Porziuncola, perché mentre eravamo ancora peccatori, è morto per noi. Dio non ha aspettative su di te, ma solo disegni di pienezza, eternità, totalità.
Io mi sono innamorata di Gesù Cristo quando mi ha promesso una vita piena, perché ero stanca di procurarmi qualcosa che la riempisse per un po’, ero stanca di affastellare impegni e occupazioni per riempire il silenzio … Dio lo abitava comunque, anche se ci stava stretto, poiché era il santuario che per anni aveva cercato di costruire nel mio cuore e che io avevo sempre abbattuto dalle fondamenta.

Il 31 luglio con la Confessione mi sono spogliata di tutte le maschere che avevo sempre indossato. Se qualcuno mi chiedesse “che volto ha la libertà per te?” oggi risponderei “Ha il volto di un uomo che è morto e risorto per me, il volto di chi mi ha trascinato fuori dalle tenebre e rimesso al mondo”. Mai avrei pensato che la libertà potesse avere il volto di qualcuno, tanto meno quello di Dio. Ma la categoria di Dio è l’impossibile. E da oggi voglio coltivarla nell’orticello della mia fede. Per farlo ho bisogno della sua grazia di cui ho fatto esperienza nella penitenziale. La confessione che, per me, era sempre stato un sacramento accessorio si è rivelato essere la chiave per le porte della vita eterna. Ho sguazzato 22 anni nei miei peccati credendo che da sola mi sarei salvata da essi…La disillusione di quella sera mi ha ricordato che io non sono Dio e che da sola non posso mietere un campo di grano senza raccogliere anche la zizzania. Mi sono sempre affannata a levarla prima del tempo, tagliandola, ignorando che le radici del male attecchiscono anche nei terreni più aridi. E che per vincere il mio peccato avevo bisogno di Dio.“È Dio che cercavo, quando sognavo la felicità”.
Il 2 agosto, baciando la terra santa che avevo raggiunto a piedi, ho strappato a Dio un abbraccio meraviglioso.

Da quando sono tornata dalla marcia, ho realizzato che la mia vita a casa è rimasta ferma al punto in cui l’avevo lasciata prima di caricare lo zaino in spalla e partire, ma nel cuore c’è un desiderio nuovo, quello di FARMI PROGRAMMARE LA VITA DA GESÙ CRISTO”. È spaventoso, e da visionari… ma sono stanca di correre il rischio di non accettare e voglio fare il BENE.

Da questo pellegrinaggio porto a casa verità, bellezza e la certezza che la misura di Dio è l’esagerazione… tutto quello che ho sempre desiderato per la mia vita.
Tutto il caso che c’era nella mia vita è mutato in provvidenza, tutto il passato in misericordia, tutto il presente in possibilità.
Mi avevano detto che la marcia sarebbe stato un posto privilegiato per fare esperienza di Dio. E così è stato. Mi sono lasciata stupire… perché chi si stupisce, regnerà e chi guarderà a Lui, sarà raggiante!

Beatrice

Sono partita per cercare Gesù nel tempio, sono tornata con il cuore colmo di meraviglia: Gesù non è lì. Ma avevo bisogno di controllare.

Ecco il mio viaggio in Terra Santa. Questa terra è piena di tutto. È piena di colori, piena di odori, piena di gente, piena di diversità, piena di cercatori di Dio. Questo luogo descrive l’assurdo dell’umanità, è l’impensabile, l’irraggiungibile, è la culla da cui proveniamo, è la descrizione della nostra umanità.
Entrare in questo paese è come entrare in una mappa che descrive il crogiuolo umano che abita la terra, è come un racconto colorito per bambini per descrivere l’assurdo del mondo, un racconto i cui personaggi sono esasperati, in cui tutto è caricaturale. Arrivare in Terra Santa è come tornare nel ventre materno, è come guardare un luogo che si è sempre conosciuto e riconoscerlo. Si rimane ad occhi spalancati, pensando che sia impossibile che sia davvero così, eppure lo è.

In Terra Santa ogni uomo cerca Dio. Gli ebrei per Gerusalemme corrono veloci, hanno sempre una meta. Stanno attendendo, eppure non attendono passivi, continuano a cercare, affannati, angosciati. I musulmani cercano Dio, sì, anche loro hanno sete, sono arrabbiati, sono frustrati dalla sua mancanza, si contendono Dio con gli ebrei, come se fosse un possesso. Gerusalemme è una città che non vive nel tempo, è una città congelata in un istante della storia, terrorizzata di cambiare, impaurita da un Dio che ancora non ha compiuto il suo annuncio, che guarda minaccioso il suo popolo dall’alto, tenendo in mano le tavole della legge. Gerusalemme è una donna che attende di partorire, vive quell’attesa della venuta al mondo del figlio, ma è anche una madre con le mani sporche di sangue, che nel suo inconscio soffre dello spargimento di cui è stata responsabile.

A Gerusalemme tutto è ad alto volume, tutto urla. Urlano i commercianti nel suk, urlano i musulmani al passaggio dei pellegrini, perfino il corpo degli ebrei oranti è un urlo. È inquietante, è di una bellezza paurosa, di una luce troppo forte per essere vera. Gerusalemme è una fortificazione che ha imprigionato sé stessa. Il centro della città è il tempio, le cui pareti sembrano crollare su sé stesse a causa della luce sfolgorante emanata dalla cupola della moschea che sorge sulla base del tempio.
È una Babele, in cui tutti rivendicano con lingue diverse la propria appartenenza a Dio. Il popolo israelo-palestinese si azzuffa su un corpo già ucciso, quello di Gesù, si combatte su qualcosa che non è più lì. Il popolo non si accorge che insultandosi, sta insultando Dio, non si accorge che trattenendolo, lo sta perdendo, l’ha già perso.
A Gerusalemme tutti pregano, ma non si riesce a pregare. Nessuno vuole sentire gli altri pregare, e nessun luogo permette a Dio di parlare, perché l’uomo pretende di dire tutto di Dio. Qui ciò che parla di Dio è l’assenza: l’assenza di pace, l’assenza di silenzio, l’assenza di ascolto, l’assenza di amore. Quanta inquietudine si vive in questa città, nel cercarlo.

Mi aspettavo un Gesù in carne ed ossa di fronte a me, con il quale parlare apertamente, e ho trovato un sepolcro vuoto. Che delusione. Ogni luogo di questo pellegrinaggio era intriso di attesa. L’attesa del sì di Maria, l’attesa della nascita, l’attesa dell’incontro con un Gesù adulto, cercatore di uomini. E ogni luogo che narra di lui, non ha senso senza il luogo successivo. Perché la storia di Dio non ha senso senza il suo finale. Per tutto il tempo ho pensato: ma dov’è??? E per tutto il tempo ho pensato ai momenti in cui ci siamo incontrati, in cui sono stata cuore a cuore con lui, ai momenti in cui mi sono sentita amata. E non lo riconoscevo. Quanta inquietudine essere nella sua terra e non trovarlo. Ma è come cercare qualcuno nella casa d’infanzia, entrare nella sua camera con ancora i pupazzi sul letto e non trovare altro che della nostalgia.

Il centro nevralgico della storia di Dio è nel calvario e poi nel sepolcro, dove l’uomo l’ha voluto relegare, incapace di accettarlo. E in questo luogo aspettavo un’enorme commozione. Ho passato una notte intera a cercarlo là dentro, senza trovarlo. Lui non c’era. Vi urlo davvero questa notizia: Gesù non è nel sepolcro!
 Davvero non è più lì. Mi sono disperata di non trovarlo. Non ci potevo credere. Quante volte ne ho fatto esperienza, quanto amo sentirmi nel suo Amore, e non trovarlo in quella che credevo la sua “casa” era per me inconcepibile. Pensavo di sbagliare qualcosa, di non conoscere più Dio, di dover ricominciare tutto da capo. Ma non mi sbagliavo: Gesù non è davvero più lì.
Il corpo di Gesù è asceso al cielo, assieme al suo spirito. E Gerusalemme questo non l’ha capito.

Gerusalemme non ha capito che ogni giorno, rifiutando i fratelli, sta rifiutando Dio. Perché Dio è dentro di noi. Io ve lo voglio dire. Ve lo voglio urlare. Voglio che tutti lo sappiano. Io ho visto uomini che lo cercano senza trovarlo, uomini per cui Dio è diventata una guerra, uomini per cui Dio è un’ideologia, una teoria, una filosofia. No, vi voglio dire, Dio è amore!
È vivo in noi, e vive di ogni volta che amiamo qualcuno.
Dio è un mistero, è la cosa più piccola del mondo, è nato e vissuto proprio lì, in quella terra che non l’avrebbe mai accettato.

Dio chiede l’umiltà di non poterlo conoscere fino in fondo, di non poterlo chiudere tra delle mura, ma di custodirlo in ciò che di più prezioso, bello ed affascinante abbiamo: il nostro corpo. Il suo corpo è diventato il nostro. Ecco perché non c’era in quel sepolcro. Dio è risorto da quel sepolcro, per fortuna!

Sono tornata a casa, a fatica, temendo ciò che mi aspettava, il pauroso quotidiano. Eppure camminando per le strade della mia città questa certezza d’amore si è fatta carne in me. In quel luogo non c’è più, ma noi l’abbiamo visto. Io voglio che lo sappiate, Dio vive nella nostra fede in Lui, nel nostro scommettere che in ogni passo faticoso nell’amore, nel rifiutare il male, nel fidarsi di Lui, c’è la vita. Io sono piccola, ma ogni volta che ci ho creduto, l’ho visto.

Non ci viene chiesto altro che di lasciarci amare e farci portatori di questo amore. Dalla Terra Santa è bello tornare, perché la vita è qui, nel nostro tempo, nel nostro spazio, non si può fermare, non si può congelare, si può solo intessere di bellezza, con la vita di Dio. Ed è in questa certezza di amore, che nasce il desiderio che tutti sappiano, che tutti sappiano che la brezza leggera che soffia per quelle strade, quasi impercettibile, è l’amore, voglio che tutti sappiano che l’uomo è degno di stima, di rispetto, perché è l’amato, perché è il luogo in cui Dio oggi vuole abitare. E non posso sopportare che qualcuno muoia senza saperlo, perché conosco il dolore di una vita spesa così.

E questo desiderio sfocia nell’impotenza di fronte alla libertà dell’altro di non accoglierlo. E di nuovo riapprodiamo all’amore. Perchè Dio ha scelto questo per mostrarsi: la possibilità del rifiuto per lasciarci liberi.
Io tutto questo non lo riesco a capire, e forse nemmeno a credere fino in fondo, ma è la mia fede, che ho ricevuto senza alcun merito, capacità o volontà, è un immeritato dono che ho ricevuto, e per questo ve la voglio donare.

Emilia

Fin da ragazzo ho visto nel cristianesimo e nella Chiesa una verità racchiusa in una realtà nella quale stavo bene, ma che non mi andava troppo di approfondire seriamente. La vita vera era separata da quello che sentivo negli ambiti cristiani. O forse non lo era, ma mi riusciva più facile pensarlo.

Il mio percorso di crescita non è stato proprio di quelli da definire senza intoppi e in discesa: caratterizzato da incontri con persone che non volevano il mio bene ma il loro interesse, che mi hanno fatto sentire sbagliato.

Da qui entrai in un mondo di eccessi, disordinato. Dovevo riempirmi la vita di qualsiasi cosa non mi facesse troppo riflettere su me stesso, su chi ero e chi volevo diventare e che mi portasse fuori da me, dal senso di colpa, per respirare attraverso la vita degli altri. Questo era l’unico modo per sentirmi migliore, o almeno accettato, mettendo al centro il mio piacere, il possesso e il mio io.

Conformarmi agli altri, che ritenevo più veri e sani di me, era la risposta ai miei dubbi.

Il mio cristianesimo era composto da una serie di valori imposti e di cose da fare per tenermi buono Dio e sentire che in qualche modo facevo qualcosa. Ma l’immagine che avevo di Lui era molto superficiale e distante. Vivevo una vita parallela: un bel vestitino da bravo ragazzo per famiglia e società e una stalla dentro, costruita da me, che non avevo il coraggio e nessuna voglia di affrontare seriamente.

E Dio se lo vivevo al di fuori, in superficie, diventava un Dio innocuo e facile da gestire. Più lo facevo entrare più diventava un Dio scomodo. Risaltava una realtà che faceva male: il mio peccato.

Sono stato un cristiano da poco con un sacco d’incoerenze, pensando che Dio vedesse solo quello che gli permettevo, ma in realtà era una fede senza un centro, senza Gesù, senza Dio, perlomeno quello vero, che è Amore.

Ho, poi, iniziato un percorso quasi senza rendermene conto, attraverso incontri con persone che ora definisco provvidenziali per il mio cammino. Sono andato a Madrid alla GMG grazie all’invito insistente di un’ amica e poi ho iniziato il percorso delle 10 parole capendo che potevano esserci strumenti per scoprire una verità nuova, almeno per me, un gusto e un profumo diverso da quello della società individualista nella quale ero immerso.

Ma c’era ancora qualcosa in sospeso che non riuscivo a chiarire al mio interno, alcuni angoli bui che preferivo nascondere da tutti e da tutto.

Qui l’arrivo ad Assisi, il 18 luglio 2014, grazie ad un’amica che mi ha consegnato il volantino del SOG. Mi aveva colpito molto l’entusiasmo e la gentilezza usata da lei nel consegnarmelo e la luce nei suoi occhi, la stessa che io da tempo ricercavo, ma che purtroppo avevo perso, restando per troppo tempo concentrato solo su me stesso. La speranza era che Gesù Cristo potesse essermi d’aiuto nell’ordinare la mia storia, con parole nuove, con la Sua storia. Ma credevo che in concreto non potesse fare niente per me, lo vedevo come un esempio ma lo sentivo troppo lontano per uscire dal circolo vizioso dei miei peccati. La realtà, però, è che mi stava preparando da tempo per incontrarmi e io non lo sapevo!

Il corso vocazionale mi ha permesso di dare una svolta concreta al mio punto di vista, allargando gli orizzonti del mio sguardo: non partiva più da me e non finiva solo su di me. Questa volta Dio mi guardava dall’esterno, mi diceva che mi amava facendomi capire che anche per me c’è un progetto per portare molto frutto, bastava orientare il mio cammino, con fiducia, verso l’unico e vero Centro.

Io non cercavo una guida, credevo di essere solo io la guida di me stesso. Cercavo solamente aiuto.

Ed Egli mi ha donato un padre per impostare una strada verso di Lui. Una grazia. Quel padre, fatto strumento, era molto di più di quel semplice aiuto che ricercavo.

Il vero splendido incontro col Signore è avvenuto nella penitenziale del 22 luglio 2014 dove, non sicuramente per merito, ma per grazia, ho potuto fare la prima confessione vera e completa della mia vita. Ricordo esattamente ogni singolo momento di quella sera. Dio voleva incontrarmi nelle mie infermità, nei miei mezzogiorni e mi aveva dato appuntamento. L’ansia prima della confessione. Un blocco all’altezza del petto e una suora che solo guardandomi negli occhi mi disse: “ dì una preghiera, invoca lo Spirito Santo”… Io, scettico, lo feci…e tutto fu più facile.

Sentivo in qualche modo che Qualcuno o Qualcosa si stesse prendendo cura di me, offrendomi una nuova possibilità e mi accompagnava a portare questo peso della croce verso il Signore.

Poco dopo la confessione ebbi un momento molto concreto di liberazione, di leggerezza, di pace, di gioia, di tranquillità e di conforto. Una sensazione che custodisco, stupenda. Mi venne detto che io non ero il mio peccato anche se il mondo attorno me lo faceva credere. E da qui ebbe inizio un percorso sano di conversione, di trasformazione. Da qui ho incominciato a vedere la misericordia come superamento della giustizia. Quel di più che solo l’Amore poteva farmi capire.

L’esserci col cuore pienamente e il fidarmi di Colui che da sempre mi conosce, ha fatto la differenza: ho iniziato a togliere il paraocchi e vedere tutta la bellezza dei doni da cui sempre sono stato circondato.

“Ecco Signore la mia croce più grande, aiutami a portarla”. E cosi è stato. Capii che Dio non è venuto ad eliminare la mia croce, le mie sofferenze, ma a dare loro un significato nuovo. Non c’è Amore senza croce.

Ho iniziato a desiderare questo Amore tanto folle che mi diceva di Amarmi mentre io col mio peccato continuavo ad inchiodarlo, ma la risposta è stata puntuale “ti amo cosi come sei, pacchetto completo, nella tua interezza, e proprio perché ti conosco completamente non ti permetto di non amarmi” e con le parole d’Isaia “tu sei prezioso ai miei occhi, tu sei degno di stima e io ti amo “(Is 43,4), che in quel momento sentivo particolarmente per me.

Da qui fu molto chiaro che tutta la verità è racchiusa in una persona e non in un’idea.

Un frate, con il quale ho intrapreso un cammino serio di fede, mi ha aiutato a dare un nome e a dar significato alla mia storia. Mi disse che la differenza l’ha fatta proprio chi in una “stalla”, in una mangiatoia per animali, ci è nato e probabilmente poteva anche nascere dentro di me se solo gli avessi permesso di entrare.

Così ho capito che il vangelo è una lettera d’amore scritta per me, per trovare consistenza e orientare il mio cammino verso una meta, un punto di arrivo, alla ricerca di una gioia, di una felicità nuova, di una vita piena e non mediocre. C’era una possibilità finalmente di fare le cose bene, di scegliere, nonostante il mio passato, con gioia, partendo da un nuovo giorno, da una nuova Pasqua che si rivela nel presente.

Ho riscoperto l’importanza di una dinamica di perdono nuova, verso le persone incontrate nella mia crescita; come a me è stato perdonato tanto anch’io ho voluto mettermi in gioco per portare il mio perdono a quelle persone, non senza difficoltà. Ma non ero più da solo.

Da qui ogni giorno di più cresce la voglia un po’ nostalgica di rifare quell’incontro iniziale, e di farlo crescere dentro di me, “il mai abbastanza” descritto da San Francesco. Quindi ho iniziato a ricercare quel Volto nella preghiera, nell’Eucarestia e nei poveri, iniziando un esperienza di servizio chiamata “ronda della carità”. Proprio qui ho riscoperto e ritrovato gli occhi di Gesù nel fratello bisognoso e la libertà e la gioia che c’è nell’ assaporare la bellezza di farsi dono per l’altro.

Un senzatetto una sera mi ha detto: “ grazie perché stasera hai scelto di essere qui per me!” e da quelle parole cosi semplici mi sono sentito amato e a casa, al mio posto. Non c’era calcetto o festa o hobby che valesse di più, non importava il mio passato e neanche il mio futuro ma era importante l’essere lì, presente, “stare” lì per lui e per me.

Capii perché Gesù ha scelto gli ultimi: questa gente senza apparentemente niente stava facendo tutto per me, io stavo dando un pasto, ma loro stavano prendendosi cura della mia crescita dandomi la possibilità di servirli. Subito mi fu chiaro che il fare esperienza di Dio, di questo annuncio, fa la differenza. Compresi il “venite e vedrete”.

La relazione col Vangelo è cresciuta sempre più ed ho riscoperto un’ umanità nuova dentro e attorno a me. Ho ritrovato una responsabilità e allo stesso tempo una voglia di annunciare una Parola che salva, pensando soprattutto a tutti miei coetanei e amici che non hanno avuto la possibilità di sperimentare esperienze simili, pur avendo uno sguardo che parla chiaramente di ricerca di gioia piena.

È esplosa la voglia di annunciare che Dio è presente nell’Amore dell’incontro, e che come ci ha ricordato Papa Giovanni Paolo II, è racchiusa in Lui tutta la felicità che da sempre tanto cerchiamo.

Marco

“Non è il Dio delle abitudini, è il Dio delle sorprese”
(Papa Francesco)

Alla marcia francescana Dio mi ha colto di sorpresa. Mi ha preparato un incontro che non immaginavo. Credevo che quei giorni sarebbero stati un nuovo tassello da aggiungere ad un cammino cristiano già ben consolidato, con delle fondamenta che ormai avevano trovato il loro equilibrio. Invece sono stati giorni che hanno scosso nel profondo tutta la mia vita di fede.

Una sorpresa il Signore già me l’aveva fatta: avevo 19 anni, era l’estate dopo la maturità e sono andato a Taizé, insieme a mia sorella con un pullman che partiva da Verona.

A Taizé, per la prima volta, ho scoperto l’Amore di Dio. Non so come; non so perché proprio in quel momento, ma nella semplicità di quel luogo la persona di Gesù mi ha toccato in fondo al cuore. Mi sono sentito amato in modo unico! L’Amore di Cristo mi aveva sorpreso e aveva lasciato un segno.

Poco tempo dopo mi sono iscritto all’università, a Padova . Questi anni sono stati tempo di grande gioia: avevo vivo dentro di me il desiderio di amare come Gesù, e questo desiderio dava una grande forza, una grande speranza. Verso la fine di quegli anni, però, questa felicità è andata pian piano diminuendo, quasi come se si consumasse. Molti amici “storici” un po’ alla volta si sono laureati e sono partiti. Ho concluso la storia con la mia ragazza dopo un periodo un po’ nero e infine io stesso stavo per finire la mia esperienza universitaria. Tutto questo ha portato un po’ di tristezza che lentamente si è trasformata in inquietudine. I grandi equilibri della mia vita non erano più così sicuri. Sono entrato in un momento di grande smarrimento.

In questo stato interiore sono arrivato alla marcia. Il cammino mi ha portato alla radice delle mie inquietudini. La fatica e l’ascolto hanno fatto breccia tra le mie resistenze. E così la sorpresa nuova è arrivata, lo stupore di un nuovo incontro. Era il giorno della penitenziale. Durante l’adorazione mi sono sentito interrogare da una domanda forte: “Emanuele, hai capito quanto ti amo? Io per te ho dato tutto! Ho dato mio figlio che ha donato la sua vita! Tu che cosa mi hai dato?

Questa domanda non è arrivata nella testa, ma ha raggiunto il cuore, perché ho pianto, ho pianto molto. Di fronte a quella domanda mi sono reso conto che nella vita mi ero sempre risparmiato. Che Dio era sempre stato importante, ma che io lo ero di più: al centro della mia vita c’ero io, non Lui. Ero sempre stato io a decidere come amare, chi amare, quanto amare, fin dove spingermi e dove invece fermarmi, perché diventava eccessivo. E ciò che mi ha fatto nascere quel pianto è stato capire che ogni volta che nella mia vita mi ero accontentato avevo messo Gesù in croce. E quante volte lo avevo fatto.

Ma come potevo io con tutti i miei limiti e le mie paure donarmi totalmente per gli altri? Quella sera alla marcia Dio ha risposto a questa domanda: mi mostrava una realtà nuova e molto grande: che la mia vita non era mia, ma era Sua. Mi chiedeva di cedergli il posto e lasciare Lui al centro, non per farmi da padrone, ma per amarmi, e soprattutto perché io mi lasciassi amare da Lui. Gesù Cristo aveva donato la sua vita per me; in un solo modo potevo rispondere: donare la mia vita per Lui. Donare la vita a Lui per ricevere tutto.

Quell’inquietudine che vivevo prima della marcia francescana era dovuta al fatto che a guidare la mia vita c’ero io e non Dio. La felicità pian piano si era consumata perché veniva da me e non da Dio. Il risparmiarmi nell’amore era una conseguenza di un amore limitato, perché veniva da me. Dio mi ha fatto una sorpresa: mi ha chiesto di lasciare fare a Lui. Di lasciarlo al centro della mia vita, di affidarmi a Lui per cancellare le inquietudini, per donarmi una felicità che non si consuma, per trasformare la mia vita in un dono da offrire agli altri.

Una bella sorpresa!

Emanuele

Due eventi hanno segnato la mia vita.

Il primo a sei anni. Un sabato io e mia sorella, uscite da scuola giocavamo a rincorrerci lungo il corridoio di casa. Ad un certo punto lei chiude la porta di una stanza ed io non riuscendo a fermarmi prima vado a finire nel vetro della porta. A soccorrermi viene mia madre. Lei non ha la macchina e sul pianerottolo non c’è nessuno, perché sono tutti a lavoro. Allora usciamo di casa e incontriamo l’infermiere che abita nel nostro palazzo, il quale sta andando a lavoro in ospedale. Grazie a lui vado in pronto soccorso . Il mio è il caso più urgente. Ricordo i momenti prima di ricoverarmi. A crudo mi ricuciono il muscolo per bloccare il flusso del sangue.

Mia madre è sempre lì accanto a me che piange. Dopo l’intervento, che sarà durato un paio d’ore, esco dalla sala operatoria e mio padre viene a sapere, da uno dei medici che mi ha operata, che non si sa per quale motivo io sia ancora viva in quanto è mancato un centimetro esatto per morire dissanguata.

Dopo questo incidente, non ricordo nulla della mia vita, dai 6 fino ai 14 anni. È come se si fosse bloccata lì. Dai 14 anni in poi sono stata la solita brava ragazza che va in chiesa, frequenta il gruppo della parrocchia, fa i campi scuola, convinta di credere in un Dio che è Amore. Ma in realtà credevo di credere.

Tutte queste certezze iniziano a crollare a 17 anni, quando muore un mio amico, fidanzato di una mia amica, in un incidente stradale. Lei quel giorno era con lui e si è salvata, mentre lui è morto. Anche questo evento mi ha segnata e da quel giorno ho creduto che il Dio amore, di cui avevo sentito sempre parlare, fosse solo una favola. Mi chiedevo sempre come mai Dio avesse fatto morire un ragazzo giovanissimo che si sarebbe dovuto sposare. Come mai avesse fatto soffrire famiglie intere, noi amici e soprattutto lei, la sua futura sposa. E mi chiedevo, ancora, come mai non mi avesse fatta morire a sei anni, dato che dovevo vivere e vedere intorno a me tanta sofferenza, tanta morte.

Domande alle quali nessuno è mai riuscito a rispondermi.

A dicembre 2012 mi viene data la possibilità, da un sacerdote che conoscevo, di andare ad Assisi a fare il corso vocazionale. Io accetto subito credendo che quei cinque giorni sarebbero stati come uno dei tanti campi scuola che avevo fatto e che i miei problemi e le mie domande sarebbero rimasti lì a casa e Dio, ancora una volta, lontano da tutto ciò che per me era morte e dolore.

In realtà è stato tutto il contrario. In quei giorni mi era stato ripetuto più volte che con questo Dio che è Padre, noi possiamo avere una relazione e che Lui non salva dalla morte, ma nella morte. E il Signore infatti entra nella mia storia in modo delicato, non invadente, parlando il mio linguaggio.

Il 30 dicembre 2012 alle ore 22:30 incontro Dio. Mi parla attraverso la Parola del profeta Isaia: “ti ho scelto, non ti ho rigettato”; e attraverso le parole di un frate si fa carne, dicendomi: “Sei bella, non farti fregare da nessuno la bellezza che hai dentro”.

Da quel giorno c’è stato un cambiamento radicale.

Tornata a casa la morte e il dolore erano lì e inizia un cammino di benedizione. Col tempo ho maturato la certezza che il Signore si è servito di queste “morti” per farmi incontrare un Amore più grande, un punto di riferimento più grande: Lui.

Il suo amore mi ha aspettata lì, dove non ho mai fatto entrare nessuno, dove soffrivo, dove ero morta. Mi ha aspettata lì, perché desiderava che vivessi tutto con occhi diversi, con gli occhi di una persona amata, desiderata, scelta da sempre, consapevole di vivere la morte, ma una morte vinta solo con Lui; con gli occhi di una persona risorta.

Sono passata dalla morte alla Vita Vera e porto sulla carne cicatrici che mi ricordano il giorno in cui il Signore ha cominciato a salvarmi. E oggi sono una ragazza felice, piena di una gioia che solo Lui può donare e amata da un Padre che desidera fare di me una meraviglia stupenda.

Ornella

È solo da un paio di settimane che mi è stato chiesto così su due piedi, di scrivere la mia testimonianza. Ecco, razionalmente lo sapevo che questo è un Dio che turba e disturba, ma questa richiesta mi ha permesso di farne la sensoriale esperienza! Ne avevo ascoltate tante di testimonianze, seduta dall’altra parte al sicuro, ed era illuminante ascoltare…quando “la faccia” non era la mia! Oggi capisco che è esattamente così che vivevo la mia relazione con Lui, Dio seducente, finché non veniva chiesto a me di essere sedotta per davvero.

A volte è più sicuro guardare gli altri giocare, piuttosto che mettersi in gioco in prima persona. Che cosa avrei potuto dire io?

Ho capito poi qual era il problema del non sentire la mia testimonianza “abbastanza”. Non avevo capito che Dio, nella tua vita può entrarci in due modi: o come un fulmine, inconfondibile luce a ciel sereno, che non puoi non riconoscere, perché arriva ad un momento esatto, di cui ricordi il giorno e l’ora; oppure arriva come l’aurora. Arriva come il primo raggio di luce dell’alba, che tu non sei neppure sicuro se ci sia o no, il cambiamento è impercettibile, confondibile, ma minuto dopo minuto, nella mia vita giorno dopo giorno, la luce imperiosa avanza e ti accorgi all’improvviso che si è fatto giorno. Il corso Zero è stata la mia Aurora. Ci sono arrivata trascinata da un amico, si, trascinata, perché il fine settimana per me c’erano le partite di pallavolo, gioco ben più importante del mettersi IN gioco per Dio! Questo Dio che era solo il dovere di andare a messa la Domenica. Che ne sapeva poi di me questo Dio che se ne stava rinchiuso in una chiesa, che ne sapeva Lui di me quando ero gelosa del successo altrui, che ne sapeva Lui di me quando i miei genitori non mi facevano sentire abbastanza, che ne sapeva Lui di me quando mi sono innamorata, Lui che se ne sta dentro la sua chiesa!

Al Corso Zero mi sono innamorata. Le catechesi che ascoltavo mi facevano sentire viva turbandomi e disturbandomi, trovando nella Sua Parola una certa forza logica che non riuscivo a smontare nonostante ci provassi. Al Corso Zero ho assaggiato un cibo che sapeva di buono, ho respirato un profumo la cui fragranza mi inebriava. Al Corso Zero ho scoperto che Dio non era fatto né di pietra, né di bronzo, che non era un bel dipinto in chiesa, né un’immagine, nè un’icona, ma era fatto di carne viva, palpitante, sofferente, amante. Ho scoperto un Dio che non se ne stava affatto rinchiuso in una chiesa ma studiava con me all’università, litigava con me con mia mamma, e giocava con me a pallavolo. Dall’Aurora di allora, oggi mi accorgo che è giorno, e con questa luce, Dio nella mia vita “non ha fatto cose nuove ma ha fatto nuove tutte le cose”. Quello che è cambiato non è stato né gruppo di amici, né abitudini, ma punto di vista. Dio mi ha insegnato a cambiare visuale per spostarla più in alto, così da uscire dalla mia piatta egoistica misura delle cose, ed osservare tutto dal punto di vista delle stelle. Come con Abramo chiamato ad “uscire fuori” e contemplare le stelle, così Dio mi hai insegnato che non posso guardare al cielo e dal cielo se non esco dal mio piccolo guscio di egoismo. E allora ho scoperto la prospettiva, la profondità, lo spessore. Che bello questo Dio che mi fa uscire dalla mia chiusura, dalle mie paure, dalla mia logica e mi porta fuori a veder le stelle!

Ecco, Dio mi ha insegnato che la paura tiene stretto, ma l’amore tiene caro. Ed oggi è giorno, alla luce del Suo Amore.

Elena

Dio è entrato nella mia vita piano, senza far rumore, in modo graduale, come l’aurora. Lui è entrato in modalità “silenzioso” ma con la vibrazione. Sì, con la vibrazione, perché l’ho incontrato attraverso persone, situazioni, eventi che mi hanno lasciato il segno, che mi hanno messo in moto dentro, che mi hanno fatto nascere domande grandi, che mi hanno acceso desideri grandi.

In quarta elementare a catechismo ho ascoltato la testimonianza di una suora missionaria; non mi ricordo niente di quello che ha detto, so solo che si è mosso qualcosa dentro e ho iniziato a farmi domande come “Ma chi glielo ha fatto fare di lasciare tutto e partire? Da dove le viene tutta questa forza?”. Domande alle quali non sapevo rispondermi. Sono rimasta attratta da quell’esempio di vita e il desiderio della missione ha iniziato a scaldarmi il cuore; mi entusiasmava l’idea di costruire qualcosa per chi non aveva niente, in un villaggio disperso dell’Africa.
Durante gli anni delle medie, i temi dello sfruttamento minorile e della fame nel mondo mi hanno accesa, ma presto ho capito che nel mondo regnava l’indifferenza e l’insensibilità di fronte a queste tematiche. Così è cresciuto sempre di più il rifiuto nei confronti di questa società consumistica, egoista e individualista.

A 14 anni in parrocchia arrivò un nuovo parroco, un tipo giovane, spiritoso, così diverso dalla figura del sacerdote a cui ero abituata io. Mi stava simpatico quel prete e dal quel momento ho iniziato ad ascoltare l’omelia. Lui ripeteva spesso: “La fede è come una piccola fiammella, fragile, che fa poca luce. Ma beato chi ce l’ha e la alimenta!”. Poco dopo ho conosciuto una suora saveriana, missionaria in Brasile da oltre 50 anni. È stata la luce nei suoi occhi a farmi suscitare ancora quel desiderio che avevo dentro, messo a tacere per lungo tempo: la missione, il donarsi agli altri, lo spendersi per gli altri. Avevo capito che l’unica cosa che faceva muovere e brillare quella missionaria era il fuoco della fede. Io non avevo per niente quella fiammella accesa nel mio cuore, ma ho iniziato a essere sempre più convinta che potevo mettermi alla ricerca di Dio. Con il cuore pieno di rabbia, ho lanciato una sfida a Dio e gli ho detto: “Io provo a cercarti, se esisti salta fuori!”. È così che è iniziata la mia ricerca di Dio. Ho iniziato a pregare, a gridare a Dio, a chiedergli il dono della fede, di sapermi fidare di Lui. Mi sono avvicinata alla Parola e piano piano sentivo che quella Parola era viva e mi rendeva viva, si incarnava perfettamente nelle mie giornate, parlava alla mia vita, mi riguardava. Dietro quella Parola doveva esserci Qualcuno. Quello che all’inizio sembrava un monologo con Dio, si è trasformato sempre più in un dialogo, un rapporto intimo con Lui. Si sono alternati periodi di smarrimento e di rifiuto di Dio, a periodi di profonda intimità. Sapevo che Lui era al mio fianco e che insieme avremo fatto cose grandi. Nel cuore custodivo questa Parola: “Voi siete il sale della terra, voi siete la luce del mondo” (Mt 5, 13-14). Ero certa che Dio aveva un progetto bello su di me, avevo il desiderio di fare la Sua volontà e di fare qualsiasi cosa mi avesse chiesto con Amore.

A 17 anni la botta: un mio amico, animatore con me in parrocchia, si suicidò e da quel momento è iniziato un periodo buio, di deserto interiore, durato quasi quattro anni. In un primo momento ho provato rabbia per l’impotenza di Dio di fronte a quel gesto, poi ho capito che Dio quel giorno ha pianto, tanto. Perché uno dei suoi figli non l’ha riconosciuto come Padre. È esplosa dentro l’urgenza di annunciare Dio ai miei coetanei, di dare un senso pieno alla mia vita, di fare un “lavoro” da grande che portasse l’altro all’incontro con Lui. Sentivo Dio che gridava forte “Io ti ho pensato e creato per la vita! Scegli la vita! Scegli la vita e porta via a chi è morto dentro!”

Ho iniziato l’università, ho continuato a seguire i gruppi in parrocchia, ma la domanda “Dio, qual è il tuo progetto su di me?” continuava ad abitare il mio cuore e stava iniziando a pesarmi sempre di più. Più andavo avanti, più avevo la sensazione di non essere sulla strada che Dio aveva preparato per me. Ero convinta che la vocazione corrispondesse al lavoro fatto su misura per me, quello in cui potevo aiutare concretamente il prossimo. Ero alla continua ricerca del lavoro ideale per me, dove potevo aiutare gli altri al meglio. Più cercavo la passione della mia vita, più trovavo in quel Dio l’unico motore delle mie giornate.

Dio voleva altro da me, ma io non riuscivo a capire cosa. Nel 2102, stanca dei valori futili su cui stavo costruendo la mia vita, stanca della logica di questo mondo, stanca di non essere compresa dalla mia famiglia, si è riacceso forte il fuoco della missione. Dio gridava forte, mi diceva “I miei progetti escono dalla logica umana! Fidati di me!”. E così con l’entusiasmo alle stelle sono atterrata in Brasile, sicura che Dio si sarebbe preso cura di me. Quella in Brasile fu per me una grande lezione di vita: mi sono resa conto di non poter salvare il mondo, ma soprattutto ho capito che stavo scappando da una realtà, la mia vita, continuamente tesa a trovare un significato di pienezza. Tornata dal Brasile ho continuato la vita di prima, stessa facoltà all’università e stessi gruppi in parrocchia, aggiungendo altre nuove attività di volontariato tra Caritas e clownterapia in ospedale. Mi spendevo per l’altro, vedevo Dio nell’altro e mi sentivo su di giri. Tutto questo spendermi mi sembrava la soluzione al mio mal di vivere, ma con il tempo ho capito che neanche quella era la soluzione, perché non stavo rispondendo alle domande grandi che riguardavano la mia vita nella sua totalità, che mi portavo dentro da tanto tempo e che di giorno in giorno si ingigantivano sempre di più, diventando un macigno sempre più pesante da portare sulle spalle: “Ma chi me lo fa fare di rimanere su questa terra? Per cosa vale veramente la pena vivere? Per chi vale veramente la pena vivere?”.   Sentivo Dio presente in tutto quello che facevo e mi stava stretto poter parlare liberamente di Lui solo un’ora a settimana in parrocchia. Lui era come un fiume in piena, voleva inondare ogni istante della mia vita, ma io non potevo lasciarlo straripare troppo, altrimenti avrei perso la stima di tanti amici e il controllo sulla mia vita.

Nel 2013 la svolta: mi ritrovai tra le mani un volantino che avevo preso in una chiesa ad Assisi l’anno prima. Sul volantino c’era scritto: Servizio Orientamento Giovani e il mio occhio è subito stato catturato da quel Corso vocazionale. Non avevo idea di cosa fosse, ma in quell’esatto istante ho pensato “mio, questo è mio”. Sono arrivata al vocazionale spinta dall’idea “sentiamo un po’ cosa dicono i frati”, senza attese, solo  con la paura di tornare a casa ancora più scossa di come c’ero arrivata.

Dal vocazionale in poi si sono spalancati nuovi orizzonti: grazie all’accompagnamento spirituale e al cammino di discernimento sono crollati i miei castelli mentali sulla mia idea di vocazione: vocazione non è il lavoro che amo fare, ma la prima vocazione è innanzitutto quella all’Amore. Ho conosciuto un Dio che non potevo più considerare semplicemente il mio migliore amico. Ho trovato un Dio Padre che mi ha presa per mano e con una delicatezza infinita, mi ha condotta a guardarmi dentro, a fare ordine nella mia vita, a dare il nome di deserto a quei quattro anni di oscurità. È in quel deserto che Dio mi ha essenzializzato, mi è rimasto accanto, mi ha fatto vedere in Lui l’unico senso della mia vita, l’unico per cui vale veramente la pena vivere. Ho ripreso in mano la mia vita, l’ho guardata con i Suoi occhi e oggi la benedico, tutta, e benedico soprattutto quei periodi di forte lotta interiore e le ferite più profonde. Ho trovato un Dio che mi chiede solo di amarlo, di stare davanti a Lui, di lasciarmi guardare da Lui e lasciarmi riempire del Suo Amore. È Lui che da sempre ha messo nel mio cuore desideri che puntano all’eternità! Scavando i miei desideri e scalando i Suoi desideri, ho respirato una libertà infinita quando ho scoperto che i miei desideri coincidono con i Suoi!  È Lui la pienezza che ho sempre cercato, è Lui la fonte della Gioia, quella piena: “Guardate a Lui e sarete raggianti” (Sal 34,6).

                                                               Chiara

 

Testimonianza di alcuni giovani durante il corso Maddalena.